The Sunday Breakfast – 38 – panoramica sui fatti globali della settimana

a cura di Cecilia Capanna

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29 giugno – 5 luglio 2020 – di Guglielmo Rezza

Clima di elezioni

Si avvicinano le presidenziali negli Stati Uniti e non solo, occorrono risultati alla svelta

Ormai mancano meno di 4 mesi alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti d’America. I democratici sono già pronti: nelle elezioni primarie gli elettori hanno premiato il candidato più rassicurante, l’istituzionale Joe Biden. Bernie Sanders, come sempre troppo socialista per la patria del capitalismo e dell’individualismo, si è fatto sportivamente da parte, dando il suo endorsement al primo classificato: basta che Trump “sia il presidente di un solo mandato”. Ma come se la sta cavando quello che probabilmente rimarrà alla storia come il Presidente più arancione della storia degli Stati Uniti d’America?

(Per chi fosse realmente interessato al dibattito sull’inspiegabile colorito arancione del Presidente si allega di seguito il link della coraggiosa inchiesta giornalistica del New York Times, che ha ritenuto opportuno svolgere un’indagine sul tema https://www.nytimes.com/2019/02/02/us/politics/trump-tan.html )

Volendo usare un eufemismo si può dire che la situazione, per il Presidente in carica, non è propriamente idilliaca: il Paese è diviso da ondate di manifestazioni contro la violenza della polizia e le profonde disuguaglianze che colpiscono le comunità afroamericane, mentre l’epidemia di COVID-19 continua a diffondersi, avvicinandosi alla maestosa cifra di 3 milioni di contagi.

Quando le cose non vanno brillantemente in patria, sarebbe quantomeno opportuno presentarsi alle elezioni con un successo in politica estera e Trump, nell’ultimo anno, ha concentrato molti sforzi nel tentativo di ottenere un risultato facilmente spendibile di fronte a un elettorato innervosito da lockdown intermittenti.

Trump ricercato in Iran

Questo infame 2020 si è aperto con la sbrigativa eliminazione del generale iraniano Qasem Soleimani sulla strada per l’aeroporto di Baghdad ad opera di un drone statunitense, seguita da un vivace scambio di minacce -e qualche razzo- tra Iran e Stati Uniti. Si è discusso sulle precise ragioni dell’attacco, ma è ragionevole classificarlo come un gesto volto a vendicare il precedente assalto all’ambasciata statunitense e a mettere sotto pressione le élite politiche iraniane, potenzialmente volto a ridiscutere i termini della questione nucleare a favore degli Stati Uniti. A mesi di distanza, nella giornata di lunedì Teheran ha reso pubblico che, in relazione all’assassinio di Soleimani, è stato imputato per “omicidio e terrorismo” nientepopodimeno che il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump. La questione iraniana, al momento, non sembra dunque esattamente risolta. Per i dettagli della vicenda, nella quale l’Iran ha cercato di coinvolgere anche l’Interpol ai fini di ottenere l’arresto del Presidente, l’articolo di Gianfranco Maselli.

Rimandata la “pace” tra Israele e Palestina

Un altro fronte estero sul quale Trump aveva cercato di ottenere risultati è stato quello della “pace” in Medio Oriente e della “risoluzione” della questione israeliano-palestinese. Le virgolette sono d’obbligo, poiché il cosiddetto piano di pace si era tradotto nel sostanziale appoggio di Trump all’annessione di tutta la valle del Giordano e del 30% della Cisgiordania da parte di Israele. L’annessione, particolarmente voluta dal primo ministro Nethanyahu e un po’ meno dal suo alleato Gantz, sarebbe dovuta partire il primo luglio, ma ha subito uno slittamento a data da definirsi: nulla di fatto, dunque. Tuttavia, l’annessione, per quanto rimandata, comporta gravissime implicazioni, sia etiche e legali che sul piano delle potenziali ripercussioni.

Altre manifestazioni e altri arresti ad Hong Kong

Nel frattempo vengono arrestati a Hong Kong altri 300 di quei manifestanti verso i quali la Presidenza degli Stati Uniti aveva espresso sostegno e solidarietà. Pechino ha approvato, nella giornata di martedì, la legge sulla sicurezza nazionale, scavalcando il Parlamento nazionale di Hong Kong e determinando l’entrata in vigore di serie misure restrittive nei confronti dell’ex colonia britannica. All’annuncio sono seguite manifestazioni e alle manifestazioni gli arresti, con il Segretario di Stato americano Mike Pompeo che ha minacciato potenziali “rappresaglie” nei confronti della Cina: le dichiarazioni non saranno certo sufficiente a spaventare Pechino, che considera Hong Kong parte integrante del suo territorio nazionale a tutti gli effetti, sebbene una buona parte degli abitanti del posto nonché l’accordo di cessione del 1984 non siano propriamente d’accordo.

Anche la Polonia alle presidenziali

C’è chi si prepara per le elezioni presidenziali e chi le ha tenute nel corso di questa settimana: nel caso specifico parliamo della Polonia. La Polonia, il cui governo è presieduto dal 2015 da Diritto e Giustizia, partito di destra conservatrice -si potrebbe azzardare anche un “destra radicale” visti alcuni dei discutibilissimi provvedimenti presi- è stata chiamata a scegliere il proprio Presidente della Repubblica. Si tratta di una carica con poteri limitati, ma tra i quali rientra il veto sulle leggi ritenute antidemocratiche, potere che avrebbe potuto essere esercitato in passato per bloccare alcuni dei provvedimenti che hanno minato l’indipendenza del potere giudiziario e della stampa, ma che il Presidente Duda -indipendente ma vicino a Diritto e Giustizia- non ha mai impiegato. Nessun candidato ha tuttavia ottenuto la maggioranza assoluta e i polacchi saranno nuovamente chiamati alle urne il 12 luglio, dovendo scegliere tra il Presidente uscente Duda, attualmente in vantaggio e lo sfidante Trzaskowski, liberale di centrodestra. Gli amici della testata The Barricade ci descrivono un Paese che desidera cambiare e che purtroppo si trova a scegliere tra un candidato che promette sì delle trasformazioni del Paese, ma in senso reazionario e un alto candidato che non promette cambiamenti.

…e in Russia c’è Putin

Infine, c’è qualcosa che non cambia veramente mai ed è il Presidente della Federazione Russa. Questa settimana ha avuto luogo il referendum confermativo della più imponente riforma costituzionale dal 1993, anno della scontro istituzionale che si concluse con l’assedio della Duma da parte dei carri armati di Eltsin. Questa volta il processo di riforma costituzionale si è svolto molto più fluidamente, senza grandi intoppi, in una Russia sottoposte a misure di lockdown intermittenti. Come detto, il pacchetto di riforme è piuttosto ampio, ma un elemento che molti hanno sottolineato è quello dell’azzeramento dei mandati del Presidente: il presidente Putin, l’ultima volta in cui aveva svolto due mandati consecutivi, impossibilitato dalla Costituzione a candidarsi per un terzo, aveva attuato un passaggio di consegne con Medvedev, per poi riassumere la carica presidenziale nelle elezioni successive. Questa volta, con l’azzeramento dei mandati, potrà direttamente correre per un nuovo mandato presidenziale, restando potenzialmente in carica fino al 2036. Il referendum è stato approvato con un alta ma non necessariamente inverosimile soglia di 78% dei voti favorevoli, a fronte di un’affluenza del 64%. Certe cose non cambiano mai.

Ci fermiamo qui, grazie per l’attenzione, buona domenica, alla prossima settimana!

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