L’accordo europeo ai raggi X tra MES, Sure e BEI

di Antonio VillafrancaISPI

Dopo il nulla di fatto di appena due giorni prima, i ministri delle Finanze dell’Eurogruppo hanno trovato un compromesso: un pacchetto di misure comuni per l’emergenza coronavirus di oltre 500 miliardi di euro, cui nei prossimi mesi se ne potrebbe aggiungere un altro per un ammontare che complessivamente dovrebbe superare i 1.000 miliardi.

Trattandosi di un compromesso, ciascuno ha dovuto cedere sulle proprie richieste iniziali. Chi più, chi meno. L’Italia e gli altri paesi del sud dell’Eurozona chiedevano a gran voce l’emissione di eurobonds, magari nell’ambito della proposta francese del Recovery Plan. I paesi del Nord con a capo Germania e Olanda consideravano – e in realtà considerano tuttora – impraticabile questa ipotesi, e si dichiaravano aperti solo all’utilizzo del Fondo salva-stati (MES), ma alle stringenti condizioni previste dal Fondo stesso. Infine la Commissione europea di Ursula von der Leyen metteva sul tavolo il proprio progetto (Sure) per ridurre gli effetti sulla disoccupazione.

In realtà era chiaro a tutti che la risposta europea non sarebbe mai arrivata attivando solo questo o quello strumento, ma poteva scaturire solo dall’utilizzo di un mix di strumenti. E così in effetti è stato. I tre strumenti approvati dai ministri delle Finanze sono il MES, la Banca europea per gli investimenti (Bei) e il Sure. Per valutare la portata dell’accordo – e capire se si tratta di un buon accordo – dobbiamo anzitutto esaminare cosa si prevede per ciascuno strumento, a partire da quello quantitativamente più rilevante: il Meccanismo europeo di stabilità (MES).

Cosa si potrà fare con il MES?

Va anzitutto ricordato che il cosiddetto Fondo salva-stati era stato creato durante la scorsa crisi finanziaria per concedere prestiti a quegli stati che non riuscivano a finanziarsi sui mercati (o vi riuscivano solo a costi altissimi). Negli anni scorsi il MES ha già concesso prestiti a Cipro (€6,3 miliardi), Grecia (€61,9 miliardi) e Spagna (€41,3 miliardi) ma a fronte di una rigida condizionalità In pratica, chi riceve i prestiti si obbliga ad approvare un memorandum d’intesa (MoU) che definisce con rigorosa precisione quali misure si impegna a prendere (soprattutto in termini di tagli al deficit/debito e di riforme strutturali). È proprio quello su cui insistevano olandesi e tedeschi, ma che irritava i paesi del Sud. Questi ultimi sottolineavano infatti la natura sostanzialmente diversa della crisi odierna rispetto a quella per cui il MES e i suoi vincoli erano stati creati.

Il compromesso prevede che i paesi europei possano chiedere prestiti al MES, a tassi ben più bassi di quelli di mercato e con scadenze piuttosto lunghe, per un ammontare complessivo che non potrà superare i 240 miliardi di euro. Su insistenza dei paesi del Nord, non si utilizzerà quindi l’intera potenza di fuoco del Fondo che supera i 400 miliardi. Ciascun paese peraltro non può accedere a crediti per un importo superiore al 2% del Pil: per l’Italia significa che non ci si potrà spingere oltre i 36 miliardi.  La spuntano i paesi del Sud nel far cadere le stringenti condizioni previste per l’accesso al Fondo, ma a patto che utilizzino le linee di credito precauzionali (ECCL) solo per coprire spese sanitarie e di prevenzione legate al coronavirus. Viene posto anche un limite temporale: si potrà accedere al MES con queste modalità solo fino alla durata dell’emergenza coronavirus. Se lo si fa successivamente vengono ripristinate le condizioni più severe. Su questo i paesi del Nord non hanno sentito ragioni.

Cosa prevedono le altre due misure?

Il secondo strumento su cui i ministri si sono trovati d’accordo è il SURE(Support to mitigate unemployment risks in emergency) fortemente voluto e già preannunciato nei giorni scorsi dalla presidente von der Leyen memore della sua precedente carica di ministro del Lavoro della Germania. Questo meccanismo potrà sbloccare fino a 100 miliardi di euro per integrare tanto la cassa integrazione italiana tanto il Kurzarbeit in Germania. Per farlo gli stati membri dovranno fornire garanzie nazionali fino a 25 miliardi che serviranno alla Commissione per emettere bond tripla A (molto sicuri e quindi con bassi tassi di interesse) che vengono poi girati ai paesi membri tramite prestiti a lungo termine.

In generale, l’ammontare che potrà essere destinato ai paesi membri sarà piuttosto esiguo, ma comunque superiore all’impegno richiesto a loro mediante le garanzie. Quindi seppur per un ammontare limitato, si tratta già di una prima forma di eurobond con una mutualizzazione del relativo debito. Un passaggio da non sottovalutare perché si tratta di un precedente significativo soprattutto per quei paesi che non vogliono proprio sentir parlare di eurobond. Una vittoria per la Presidente della Commissione che in tempi non sospetti – ovvero già all’inizio del suo mandato – aveva prospettato la possibilità di introdurre uno strumento di questo tipo.

Oltre all’ammontare complessivo piuttosto modesto a livello di singolo paese membro, un altro limite potrebbe essere il tempo: dopo l’approvazione a livello europeo, la normativa dovrà passare dai vari Parlamenti nazionali. Mentre gli effetti sull’occupazione e sui redditi dei lavoratori europei si fanno già sentire con forza, velocizzare i vari passaggi istituzionali per l’entrata in vigore dello strumento sarà un fattore chiave per il suo successo.

Altri 200 miliardi di euro potranno infine arrivare alle imprese sotto forma di prestiti concessi dalla Banca europea per gli investimenti (BEI). Questo avverrà attraverso l’attivazione di un Fondo di garanzia dei paesi europei di 25 miliardi che permetterà alla BEI di reperire sui mercati fino a 200 miliardi da tramutare poi in prestiti agevolati alle imprese con un occhio di riguardo a quelle medio-piccole.

È un buon accordo?

Nel valutare l’intero pacchetto molti si affretteranno di certo a vedere il famigerato bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno. Per provare a dare un giudizio il più oggettivo possibile bisogna capire se e in che misura il pacchetto di misure è commisurato alla portata dell’impatto del coronavirus sull’economia europea. Secondo l’Ocse, lo shutdown si traduce in una contrazione mediamente tra il 20 e il 25% del Pil, con differenze anche significative da un paese all’altro: si va ad esempio dal -15% per l’Irlanda, al -25% per gli Usa, al -25-30% per Italia, Germania e Gran Bretagna, fino a circa il -34% per la Grecia. Contrazioni anche superiori a quelle della precedente crisi finanziaria. Questo senza tener conto comunque delle misure fiscali nazionali già annunciate dagli stati membri e senza appunto tener conto dell’effetto positivo derivante dall’introduzione di ulteriori misure europee. Codogno e van den Noordhanno calcolato che se non ci fosse proprio alcun accordo europeo – quindi con l’effetto positivo delle sole misure nazionali (e della Bce) – la contrazione del Pil sarebbe del 10,7% nei paesi ‘core’ del Nord, e del 18% circa in quelli del Sud. Se all’opposto lo sforzo Ue andasse oltre l’accordo odierno fino a spingersi verso una vera e propria emissione di eurobond la contrazione si limiterebbe all’1,9 per il Nord e al 2,2% per il Sud.

Certo si tratta di calcoli basati su ipotesi molto forti, toccando le quali i risultati possono cambiare di molto. Ma quello che non cambia è il segnale che lanciano: maggiore l’intervento aggiuntivo da parte dell’Ue, maggiore il beneficio per tutti, sia per i paesi del Nord sia per quelli del Sud. Quindi con l’accordo dell’Eurogruppo ci si pone in una situazione intermedia in cui l’impatto della crisi per i singoli paesi membri sarà comunque enorme. Tanto più che dopo l’emergenza coronavirus l’indebitamento pubblico e privato aumenterà notevolmente con il rischio di una nuova crisi finanziaria che potrebbe ricordare molto da vicino quella precedente. Il rischio quindi va oltre l’impatto sul Pil dei paesi e riguarda la tenuta stessa dell’Eurozona. Da qui l’esigenza di un piano per la ricostruzione economica europea da finanziare con emissione di eurobond e magari prevedendo un loro (quantomeno parziale) acquisto da parte della Bce che potrebbe tenerli in pancia per tempi molto lunghi (se non addirittura per sempre).

È proprio quello che hanno chiesto i paesi del Sud nell’ambito della proposta francese del Recovery Plan. Nell’accordo finale dei ministri si riconosce – e non era comunque scontato – l’esigenza di discutere di questo strumento per 500 miliardi di euro, rinviando a una decisione dei capi di stato e di governo del Consiglio europeo. Il cuore del problema è scontato: da dove si prenderanno i soldi. Ci si limita a dire che il prossimo bilancio Ue 2021-2027 giocherà un non meglio specificato ruolo centrale, e quindi anche i ‘paesi frugali’ del Nord dovrebbero metterci più soldi. Ma comunque è chiaro che potrebbe non bastare. Anche solo per una questione di tempi: l’intervento sull’economia impone tempi ben più rapidi dell’avvio del prossimo bilancio Ue nel 2021. I ministri delle Finanze al momento si limitano a concordare in un enigmatico sforzo per identificare meccanismi innovativi di finanziamento. Ma nessun esplicito riferimento viene fatto agli eurobond.

Il giudizio sull’accordo dipende da quello che questo rappresenta per i governi europei. Se si tratta del massimo – o quasi – che riusciranno a fare in comune, il giudizio sull’accordo non può che essere negativoperché inadeguato rispetto alla portata delle sfide. Se invece rappresenta una tappa intermedia verso un vero Recovery Plan, allora il giudizio è positivo perché prevede in chiave solidaristica delle prime urgenti misure per affrontare l’emergenza. Non spetta ai commentatori quindi dire se è un buon o cattivo accordo, ma ai leader europei dimostrare nei prossimi mesi cosa sia.