di Naomi Di Roberto – OTHERNEWS
Secondo le Nazioni Unite, per il 38% le donne turche sarebbero state vittima di violenze fisiche o sessuali da parte del proprio partner. Soltanto nel 2019, sono state assassinate almeno 474 donne nel paese, in aumento rispetto agli anni precedenti.

Fine della democrazia
Libertà di stampa, di pensiero, di espressione, di informazione: sono solo alcuni dei diritti ad oggi violati in Turchia ove il Presidente Recep Tayyip Erdogan, tramite il controllo governativo, sta inserendo restrizioni sempre più soffocanti, cercando di mettere a tacere ogni forma di dissenso verso il potere e le politiche da lui attuate. Dopo la sua vittoria alle elezioni ed il cambiamento dell’assetto istituzionale che ha conferito ampi poteri al Presidente della Repubblica, eliminando i diversi controlli che il parlamento solitamente esercitava sul suo operato, la democrazia è stata pian piano offuscata e molteplici sono state le testimonianze di oppressione, censura, processi e detenzioni arbitrarie.
I gravi episodi di violenza sono iniziati ad essere sempre più frequenti proprio in questi ultimi mesi e si fa sempre più tangibile la paura, da parte della cittadinanza turca ma soprattutto di chi lotta ogni giorno per i diritti umani, che una politica così fortemente repressiva possa presto sfociare in vera e propria dittatura.
Ne è un esempio il caso di Zehera, condannata a 2 anni, 9 mesi e 22 giorni per propaganda terroristica, in quanto aveva provato a mostrare su Twitter, tramite i suoi disegni, il punto di vista delle vittime di Nusaybin, città a sud est della Turchia e teatro di violenze nei confronti dei curdi, popolazione prevalente nella città. Una donna condannata perché voleva mostrare al mondo il punto di vista delle vittime, dei deboli, per aver disegnato i carri armati delle forze governative come degli scorpioni giganti che mangiavano i membri dell’esercito turco e per aver sposato la causa dei curdi.
Stessa accusa fatta al Grup Yorum, gruppo musicale legato alla sinistra rivoluzionaria turca, i cui membri Helin Bölek, Mustafa Koçak e Gökçek sono morti a causa di uno sciopero della fame iniziato in prigione per protesta e continuato poi anche fuori, nel desiderio di una revoca del divieto di fare concerti in vigore dal 2016 a causa delle loro idee politiche.
Un accenno di resistenza a maggio, in pieno Ramadan, quando dalle moschee di Smirne, la “bestia nera”, città mai caduta sotto il controllo dei conservatori islamici, è arrivato un ultimo saluto: viene fatta risuonare “Bella ciao” in turco, la stessa cantata dai Grup Yorum alla fine dei loro concerti. Una dimostrazione di solidarietà e di battaglia, di libertà di espressione in tutte le sue sfaccettature, di parola, di pensiero, di stampa, in un’unica grande voce, una voce turca, che dice solo “portami via”.
… ma la speranza c’è.
Dopo la bozza di Legge discussa in Parlamento il 16 Gennaio, volta a reintrodurre il “matrimonio riparatore”, tentativo che avrebbe permesso a chi era accusato di violenze sessuali di uscire di prigione evitando la condanna a patto di “riparare” sposando la propria vittima, Erdogan ci riprova ponendo sotto i riflettori un possibile ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul. Ed è così che la lotta contro la violenza sulle donne torna ad essere centrale nella politica nazionale ed internazionale del Paese. Già il 21 luglio, infatti, successivamente al ritrovamento del corpo della studentessa 27enne Pinar Gultekin, vittima del suo ex fidanzato, la discussione sulla violenza di genere si era fortemente riaccesa con numerose proteste da parte di associazioni per i diritti umani ma soprattutto delle stesse donne turche scese in piazza a manifestare.
Questa volta, però, la prima a “non starci” e a far sentire la propria voce Kandem, è l’organizzazione guidata proprio dalla figlia maggiore del Presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Sumeyye Erdogan infatti, discostandosi dalle idee del padre, ha diffuso un comunicato in cui difende a tutti i costi la Convezione di Istanbul, ribadendo non solo la sua importanza fondamentale, ma soprattutto smentendo le accuse del fratello Bilal secondo cui nel testo della Convenzione sarebbero presenti minacce alla famiglia tradizionale turca a vantaggio, dunque, degli orientamenti omosessuali e LGBT.
La Convenzione di Istanbul è infatti tra i primi strumenti internazionali volti a creare un quadro normativo concreto, coerente ed efficiente, giuridicamente vincolante, per la tutela delle donne contro ogni forma di maltrattamento e discriminazione. Riconosce inoltre la violenza di genere come una violazione dei diritti umani. C’è da sottolineare che paradossalmente abbia preso il nome dall’importante città della Turchia che nel 2011 è stata tra i Paesi firmatari della Convenzione, prima dell’arrivo di Erdogan.
Ad oggi, Agosto 2020, questo è lo specchio di ciò che da anni accade in Turchia ove i diritti sono ancora violati, le persone sono ancora perseguitate, l’opposizione troppo debole, eppure aleggia nell’aria una tangibile e visibile luce di speranza.