Grecia: la drammatica situazione del campo migranti di Moria

di Naomi Di RobertoOTHERNEWS

Grecia e Turchia a confronto, intanto nell’hotspot greco di Moria 12mila migranti dimenticati.

Campo profughi di Moria, Lesbo

Il sogno Europeo e le traversate irregolari in mare dal Nord Africa e dal Medio Oriente sono tematiche che vengono affrontate quotidianamente ormai da decenni. Quello che non tutti sanno, però, è che durante l’emergenza Covid-19 questo fenomeno non si è di certo fermato come il resto del mondo, anzi, soprattutto in territori come la Grecia, confinanti con realtà più deboli e da sempre approdo di intensi flussi migratori, la situazione si è fatta sempre più critica. Alle problematiche legate strettamente all’igiene ed alle scarse misure di prevenzione e controllo, volte a contrastare la diffusione del virus, si sta aggiungendo anche discriminazione ed intolleranza da parte della popolazione locale, violazioni di diritti umani nonché l’uso della forza da parte dello stesso governo greco.

Ma andiamo per gradi.

Limbo nel Mediterraneo

Come detto in precedenza, le isole del mar Egeo nord-orientale, famosissime destinazioni turistiche del Mediterraneo, sono da sempre state anche terre di arrivo dei migranti provenienti dal Medio Oriente.

Lesbo, Chio, Samos, Lero, Kio: sono questi i cosiddetti “hotspot” presenti in Grecia, analoghi a quello italiano di Lampedusa, ossia dei centri per lo smistamento ed identificazione che l’Europa ha chiesto di allestire dal 16 settembre 2015 in tutti quei luoghi sensibili per lo sbarco di migranti. Fino al 2015, infatti, proprio in questi territori, i profughi sostavano assistiti da ONG e popolazione locale, prima di continuare quella che ad oggi chiamiamo “rotta balcanica”, una rotta della speranza che, partendo dalla Turchia, passava per Grecia, Macedonia, Serbia, Bosnia ed infine Croazia, porta dell’Europa.

Tale rotta avrebbe dovuto essere chiusa nel 2016 con l’accordo tra Unione Europea e Turchia, che affidava al governo turco il compito di respingere i migranti irregolari diretti verso la Grecia. A marzo, tuttavia, in piena emergenza sanitaria, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha riaperto a tutti gli effetti i confini del paese, senza che venisse comunicata ufficialmente alcuna sospensione degli accordi del 2016 con l’Unione Europea, in risposta alle decine di soldati turchi uccisi nei raid aerei lanciati a Idlib, la regione nel nord-ovest della Siria, scenario dei combattimenti tra Damasco, Mosca e Ankara il 27 febbraio scorso.

Gli accordi del 2016 prevedevano che tutti i migranti irregolari che non avessero chiesto protezione internazionale o la cui domanda fosse stata ritenuta infondata, sarebbero stati rimpatriati e, per ogni siriano rimpatriato in Turchia, un altro siriano sarebbe stato reinsediato sul territorio dell’Unione Europea. La Grecia si è trovata così in poco tempo al collasso, solo a marzo erano 42.000 i richiedenti asilo bloccati nei cinque hotspot delle isole greche, quasi in piena emergenza sanitaria.

Dopo l’idea del muro galleggiante in mare per contrastare il flusso migratorio, il 1 Marzo il premier Mirsotakis, attraverso un decreto aveva tentato di sospendere per almeno un mese la possibilità di presentare domanda di protezione internazionale, richiamando anche l’articolo 78.3 del Trattato sul Funzionamento dell’Ue per ottenere fondi e misure di aiuti e sostegno che non hanno tardato ad arrivare. Tra queste anche le operazioni Frontex, missione dell’Agenzia Europea della guardia di frontiera e costiera che avrebbero dovuto garantire il rispetto del diritto di non-refoulement ossia del non rimpatriare i richiedenti asilo di Paesi a rischio di persecuzioni, tra cui anche la Turchia in cui Erdogan, tramite il controllo governativo, sta inserendo restrizioni sempre più soffocanti, cercando di mettere a tacere ogni forma di dissenso verso il governo, non rispettando le norme in materia di diritti umani. Diversi sono stati gli scontri tra migranti e polizia greca lungo il confine con la Turchia, ove circa 117mila persone premevano sulla frontiera per raggiungere l’Europa: un vero limbo nel Mediterraneo fatto di violenze, repressione, gas lacrimogeni da un lato, lanci di pietre dall’altro.

Ancora prima delle parole di Erdogan, era già chiaro che gli accordi stipulati nel 2016 tra Turchia e Europa non avrebbero potuto risolvere la questione dei rifugiati. «Nel 2016 avete deciso di intrappolare queste persone sulle isole greche come fosse una misura necessaria e temporanea», ha detto a novembre il presidente internazionale di Medici Senza Frontiere Christos Christou. «Vi avevamo avvertito delle conseguenze umanitarie che avrebbe avuto il vostro accordo con la Turchia. Abbiamo anche deciso di smettere di accettare fondi dagli stati membri dell’Unione Europea in segno di protesta. Oggi vediamo il risultato di quella decisione: uno stato di emergenza cronica e un ciclo continuo di sofferenza umana».

Ma la tensione si è fatta ancor più alta negli ultimi giorni: dopo la trasformazione del museo di Santa Sofia in moschea, i due paesi arrivano ad un nuovo punto di rottura: la Turchia ha infatti intensificato le esplorazioni di riserve energetiche nel Mediterraneo orientale e la Grecia, in tutta risposta, ha posto le sue forze militari in massima allerta accentuando le richieste alla Turchia di fermare le attività “illegali” (le acque, infatti, non sono state definite né da un accorso né dal verdetto di un tribunale internazionale) ed intensificando l’offensiva diplomatica affinché la situazione si blocchi pacificamente.

Il dramma di Moria

Sovraffollamento, scarsa igiene, condizioni di vita precarie, violenza sono solo alcune delle problematiche presenti nell’hotspot Moria, sull’isola di Lesbo: l’allarme era stato già lanciato a Marzo da Medici Senza Frontiere (MSF) dopo i primi segnali di coronavirus sull’isola in piena emergenza sanitaria: “In alcune parti del campo di Moria c’è solo un rubinetto ogni 1.300 persone e il sapone non è disponibile. Famiglie di cinque o sei persone devono dormire in meno di tre metri quadri. Questo significa che le misure raccomandate per prevenire la diffusione del virus, come lavarsi spesso le mani e la distanza sociale, sono semplicemente impossibili” dice la Dott.ssa Hilde Vochten, coordinatore medico di MSF in Grecia.

Dopo la quarantena dei centri di Malakasa e Ritsona ad Aprile, entrambi molto vicini alla capitale, ed il primo contagio su Lesbo, il governo greco temeva per Moria, campo più grande presente in Europa, progettato per accogliere circa 3 mila persone ed in cui, solo ad oggi, sono presenti circa 12mila migranti. Il sovraffollamento e le terribili condizioni di vita dei migranti senza acqua, senza elettricità e servizi igienici, rappresentano la tempesta perfetta per un’epidemia di Covid-19, data anche la mancanza di adeguati servizi igienico-sanitari e lo scarso accesso alle cure mediche. Soprattutto per donne e bambini c’è il rischio costante non solo dal punto di vista sanitario, ma anche per quanto riguarda l’incolumità fisica e psichica, bloccati in un luogo ove la criminalità è diventata all’ordine del giorno, ove droga e spaccio si diffondono sempre maggiormente e violenze e percosse partono dalla povertà, dalle immense file per la mensa o per il bagno. Attivisti ed ONG a gran voce hanno denunciato lo status di degrado del campo e dei suoi abitanti, sottolineando a più riprese la mancanza di norme di prevenzione e controllo dell’infezione, salvaguardia della salute, identificazione dei casi ed eventuale isolamento, così come la proposta di evacuare qualora la situazione non migliorasse.

Alla drastica situazione di emergenza delle isole si aggiunge ed imperversa l’ondata di intolleranza e discriminazione contro i migranti. L’uso della forza da parte del governo turco, infatti, sembra non riguardare solo i suoi confini: oltre agli accessi negati alla sanità, il sovraffollamento degli accampamenti provvisori (almeno in teoria), causato dalla rigida burocrazia di identificazione e dalle arrugginite politiche di redistribuzione dei protocolli bilaterali, ha provocato numerose rivolte dei residenti nei campi, diversi incendi sospetti, conseguenti morti e feriti.

A tali pericoli, si aggiungono anche quelli degli intolleranti che tentano di scaldare gli animi della popolazione locale ormai stremata dalla situazione ad altissima tensione e che già a gennaio aveva iniziato a manifestare per far sì che alcuni migranti venissero spostati nella Grecia continentale. Migranti ed attivisti sono così man mano diventati bersaglio di gruppi di violenti estremisti che tentano di controllare le vie d’accesso del campo spargendo terrore e appiccando incendi. L’episodio che ha fatto il giro del mondo è avvenuto a marzo, quattro barconi con oltre 200 richiedenti asilo arrivano a Lesbo ed una folla di locali gridano loro di andarsene con una tale ferocia da ammutolire gli stessi bambini immigrati.

Ancora oggi arrivano notizie di incendi e di aggressioni. Nonostante la situazione spiacevole di emergenza sanitaria che la Grecia in primis sta vivendo, certe tematiche non si allentano, anzi, allungano le proprie radici e stringono con ancor più la morsa.