di Alice Minati – OTHERNEWS
Biden alla Casa Bianca e la nomina di John Kerry come inviato speciale per il clima riflettono la volontà dei democratici di riconquistare la leadership americana nella lotta al cambiamento climatico e nelle politiche per il clima. C’è il rischio di un’opposizione frontale con i repubblicani al Senato per la definizione delle controverse politiche climatiche.

L’elezione di Biden alla Casa Bianca accompagna la promessa di un ritrovato protagonismo americano sul clima sia a livello internazionale che a livello domestico. Sin dall’inizio della campagna elettorale, il candidato democratico non ha fatto mistero della sua volontà di intervenire decisamente, se eletto, per arginare la crisi climatica e multilaterale in corso, recuperando il posto dell’America a “capotavola”.
La strada per riacquisire credibilità sul tema climatico a livello internazionale appare comunque in salita. Le prese di posizione ondivaghe e le sensibilità opposte assunte dalle ultime presidenze (da promotori e negoziatori attivi dell’Accordo di Parigi sotto l’amministrazione Obama all’uscita dell’Accordo con l’amministrazione Trump) hanno dimostrato l’inaffidabilità americana in materia di clima che, piuttosto di apparire un elemento trasversale delle agende politiche, si è dimostrato alquanto divisivo.
Indicativo è stato l’annuncio, non solo simbolico, di Biden di voler rientrare a pieno titolo nell’Accordo di Parigi il primo giorno del suo mandato da Presidente degli Stati Uniti, il 20 gennaio prossimo. Il recupero della credibilità americana nei negoziati per il clima riesumerebbe la cooperazione con l’Unione Europea la quale ha invece da parte sua “sposato” la causa climatica e fatto del clima una bandiera identitaria con l’annuncio del Green Deal europeo.
La nomina di Kerry, il nuovo “ministro” dell’ambiente
La determinazione di Biden si è presto manifestata con le prime nomine del team di governo: John Kerry, amico personale di Biden, è diventato “inviato speciale della Casa Bianca per il clima” e membro del Consiglio di Sicurezza Nazionale.
John Kerry, ex senatore, ex candidato alla presidenza e ex segretario di Stato con la seconda amministrazione Obama, è il volto del partito democratico che ha più familiarità con la “diplomazia del clima”. Apprezzato dalla sinistra più radicale, Kerry è considerato un negoziatore nato – è stato lui a guidare la delegazione americana a Parigi per la definizione e la firma degli accordi – che sin da giovane si è impegnato a difesa della causa ambientale. Inoltre, la sua lunga carriera e esperienza politica lo rendono anche agli occhi dell’opposizione repubblicana una persona affidabile aperta al dialogo, un requisito centrale per le sensibili tematiche chiamato ad affrontare.
La nomina di Kerry e il mandato del suo ufficio riflettono il cambio di passo dell’amministrazione democratica nel suo impegno per i clima. In primis con un semplice parallelismo si può affermare che questa nomina fa di Kerry un “super ministro dell’ambiente”. È la prima volta infatti che un inviato per il clima entra a far parte del National Security Council, l’organismo responsabile della pianificazione della politica estera e delle questioni militari statunitensi. Così facendo, Biden dimostra di voler fondere sicurezza nazionale, politica estera e politica climatica, riconoscendo la dimensione internazionale del problema climatico.
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I possibili ostacoli al Senato
Se la nomina di Kerry è stata salutata come una buona notizia per la lotta alla crisi climatica e l’avvio di una nuova politica estera, ambientale e energetica statunitense, indiscutibilmente questo percorso pare già alquanto tortuoso. Bisogna in primo luogo considerare la preminenza del Senato americano che si è storicamente dimostrato critico a intraprendere misure climatiche “restrittive”. Se il Senato rimarrà a guida repubblicana sarà difficile per Biden perseguire la propria agenda sul clima, specialmente nella definizione di politiche nazionali più innovative. Per questo, le elezioni che si terranno a gennaio per la nomina dei due rappresentanti della Georgia al Senato Repubblicano saranno determinati. Nel caso in cui anche uno solo dei due seggi venga vinto dai Repubblicani, manterranno la maggioranza al Senato almeno per i prossimi due anni fino alle nuove legislative di mid-term.
Basti pensare che l’ingresso degli USA nell’Accordo di Parigi non è stato ratificato dal Senato americano: in virtù della volontarietà degli Accordi, il presidente Obama aveva deciso di non riporre la questione al Senato e procedere all’adesione tramite un ordine esecutivo. In questo modo Obama aveva aggirato il meccanismo legislativo che prevede la ratifica dei trattati internazionali da parte del Senato con una maggioranza dei 2/3 dei voti, difficili da ottenere poiché anche allora i Repubblicani detenevano la maggioranza al Senato.
USA, i primi esportatori mondiali di greggio
La definizione di nuove politiche per il clima rischia di aprire un aspro scontro politico interno. Da un punto di vista europeo, la sensibilità americana sul clima e soprattutto sulle misure restrittive in termini di tassazione e limiti alle emissioni è ancora piuttosto modesta. In campagna elettorale il candidato democratico ha affermato di voler spendere miliardi di dollari in energia pulita, il cui finanziamento potrebbe derivare da un aumento della tassazione dell’energia o dall’inserimento di alcuni limiti ai consumi di benzina. Misure piuttosto impopolari che si prestano a facili attacchi da parte dell’opposizione repubblicana.
Non da ultimo, bisogna ricordare che negli ultimi anni, prima dello scoppio della pandemia in corso, grazie alla tecnica del fracking, gli americani sono diventati i maggiori produttori e esportatori mondiali di petrolio. Lo shale oil e lo shale gas estratti con questa tecnica garantiscono in primis l’autosufficienza energetica americana e in secondo luogo nuovi guadagni sulla scena internazionale. Questa trasformazione, da paese importatore di greggio a paese esportatore è stata maturata negli anni già con l’amministrazione Obama. Nonostante il realismo politico ci dice che è impossibile garantire la sicurezza energetica con le sole fonti 100% rinnovabili di vento e sole, le politiche domestiche sul clima non potranno eludere la questione di considerare qualche sacrificio dell’industria petrolifera americana, tra l’altro già sotto stress a causa del basso prezzo del petrolio determinato dalla crisi in corso.
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