I campi di concentramento del presente e la banalità del male

La giornata della memoria può essere un’ occasione per dare voce anche ai campi di concentramento del presente?

di Gianfranco Maselli– OTHERNEWS

Il campo profughi di Moria, incendiato lo scorso Settembre

Il peggior male del mondo, scrive Hannah Arendt, è il male commesso dai nessuno, da esseri umani che rifiutano di essere qualcuno.

Ho sempre voluto completare questa citazione de “La banalità del male”. Continuando, direi che coloro che commettono il male peggiore non solo rifiutano la loro umanità, ma si arrogano prepotentemente il diritto di sottrarla anche a tutti quei sottomessi che finiscono per diventare dei nessuno e cadere nell’oblio.

È ciò che è successo nella Shoah, ciò che si è consumato nei campi di concentramento togliendo la vita a migliaia di ebrei, rom, disabili, omosessuali, slavi e dissidenti per motivi razziali, politici o religiosi.

Un’occasione per riflettere sul presente

La memoria è importante per invertire l’oblio, per far sì che di questi soprusi resti una traccia inequivocabile. Ciò che rimane è una macchia sui nostri vestiti che ci ricorda come ci siamo sporcati e come evitare di farlo ancora.

Siamo stati cresciuti con questo monito. Ci hanno insegnato a ricordare la tragedia immane delle vittime dei campi di concentramento una volta l’anno. Non credo, tuttavia, di fare peccato scrivendo che ci siamo abituati ad un approccio alla questione eccessivamente passatista.

Viviamo un rituale annuale in cui si rimpiangono gli errori e si commemorano le vittime. Alle volte, tuttavia, pare che abbiamo dimenticato come applicare davvero alla nostra sensibilità ciò che questa tragedia dovrebbe averci insegnato.

Forse ci sfugge ancora come osservare al meglio quegli eventi che scorrono in presenza lungo i bordi del nostro tempo.

Se provassimo a guardare gli spazi periferici nei dibattiti mediatici ci accorgeremmo di come abusi simili a quelli dei campi di concentramento nazisti ancora serpeggiano indisturbati.

Avevamo già parlato degli abusi cinesi, di quelli in Corea del Nord, delle persecuzioni dei Rohingya. Oggi come non mai, tuttavia, ci sembra giusto chiederci: quali sono gli altri i campi di concentramento del presente?

I campi di Concentramento Libici

In Libia circa cinquemila richiedenti asilo sono ancora detenuti per un tempo non definito. Sono circa dieci i principali centri di detenzione ufficiali gestiti dal Dipartimento per combattere l’immigrazione illegale (Dcim) del Governo di Accordo Nazionale (Gna).

Un campo profughi in Libia

Per comprendere l’attuale situazione dei migranti in Libia, tuttavia, occorre tornare indietro almeno di tre anni.

Verso la metà del 2017, infatti, si è verificato un drastico calo del numero di migranti che attraversavano l’Europa dalla Libia. Questa diminuzione ha coinciso con una serie di fattori, tra i quali il Memorandum d’intesa firmato da Italia e Libia nel febbraio di quell’anno.

Con tale accordo, l’Italia ha definito la sua strategia contro l’immigrazione clandestina. Ad essere stati coinvolti sono stati il Governo di Intesa Nazionale della Libia guidato da al-Sarraj assieme a diverse tribù e autorità locali.

Lo scopo era offrire aiuti in cambio di un controllo dei migranti e dei traffici illeciti. Gli investimenti messi in campo sono stati destinati a rafforzare la capacità della Guardia Costiera libica, dotandola di imbarcazioni veloci e apparecchiature di sorveglianza.

È dal 2017, dunque, che l’Unione Europea finanzia la Guardia costiera libica per impedire ai migranti di raggiungere le coste europee.

In questo modo, tuttavia, questi ultimi restano bloccati in veri e propri campi di concentramento senza nessuna garanzia e in condizioni disumane.

Impossibile non parlare del grave sovraffollamento, della carenza di cibo, dell’igiene inesistente, della mancanza di accesso alle cure mediche. A ciò si aggiungono gli abusi, il lavoro forzato e le sparizioni misteriose di persone.

Ben tre centri di detenzione sono stati chiusi nel 2019. Nonostante ciò a giugno 2020, secondo lUNHCR Libia, c’erano ancora circa 2.500 rifugiati e migranti nei centri ufficiali. Un elenco del 2018 contava almeno 27 strutture attive.

I lager della rotta Balcanica

Nel 2015 la rotta balcanica, percorso di migrazione verso l’Europa già a partire dagli anni ’90, è diventata la principale via di accesso al vecchio continente, a seguito dell’apertura dei confini da parte dell’Unione Europea e degli Stati balcanici.

La rotta balcanica dei migranti

Per anni, centinaia di migliaia di persone, prevalentemente provenienti da Siria, Iraq e Afghanistan, sono arrivate in Europa attraverso Grecia, Macedonia, Serbia, Croazia, Slovenia e Austria, influendo sulla morfologia e sui confini di questi territori.

In poco tempo, tuttavia, questo corridoio monitorato e legalizzato dove sono sorti campi profughi di transito, stazioni dei treni ad hoc e centri di distribuzione di cibo e vestiti si è trasformato in qualcos’altro.

A marzo 2016, dopo gli accordi tra Unione Europea e Turchia, i confini degli Stati lungo la rotta balcanica sono stati definitivamente chiusi e il viaggio verso l’Europa è diventato sempre più pericoloso e costoso sia in termini economici quanto di vite umane.

Oggi circa 130 mila vite si ritrovano bloccate in spazi che faticheremmo a definire campi profughi.

Si tratta, piuttosto, di realtà estreme fra la vita e la morte simili a campi di concentramento situate tra Grecia, Nord Macedonia, Albania, Serbia, Bosnia Erzegovina, e Croazia.

Qui l’unica possibilità per arrivare in Europa è quella di affidare la propria vita nelle mani dei trafficanti diventando dei nessuno, merce da traghettare, involucri dagli occhi scavati che non hanno più nulla da perdere.

L’inferno dei campi di concentramento di Moria

Anche all’ombra della Grecia c’è una terra di nessuno, dove donne e uomini sembrano essere stati dimenticati da tutto fuorché dal dolore, dai soprusi e dalle fiamme.

Solo una generica solidarietà ha sfiorato il campo profughi di Moria dopo l’incendio divampato nella notte tra l’8 e il 9 settembre del 2020.

L’incendio dello scorso Settembre nel campo profughi di Moria

Quello che in molti hanno definito il “lazzaretto apparecchiato dall’UE sull’isola greca” è il frutto malato di politiche errate e approssimate che hanno distorto la natura di un’isola intera.

Questa si è tramutata in uno spazio in cui se non si muore si sopravvive in modo indegno, si assiste a violenze e soprusi o li si riceve entrambi nel silenzio generale.

Qui spariscono bambini, ci si prostituisce per 5 euro, i clan spadroneggiano e non esiste alcun diritto umano.

Come si è arrivati a questo punto?

Moria è l’appendice di un accordo milionario concluso fra l’Europa e la Turchia di Erdogan. L’obiettivo è tenere segregati sul suolo turco cinque milioni di siriani.

Il campo profughi di Moria è stato poi dato alle fiamme, senza che la comunità internazionale se ne sentisse investita. La massima conseguenza è stata una lievissima solidarietà nei confronti di una situazione drammatica che, in realtà, era lì già da molto tempo.

Tanta, invece, è stata l’ignoranza che ha impedito di riconoscere chi sono i responsabili dello stato delle cose.

Forse è stato un errore consentire che a Lesbo, nonostante la capienza sostenibile di ospiti ammontasse 3000 persone, ne vivessero 12mila. Allo stesso modo è innegabile l’errore europeo nello scaricare interamente su Atene la gestione dell’emergenza.

Non pianificare soluzioni alternative come hotspot sulla terraferma da un lato e pressioni su Ankara dall’altro ha determinato, per ultimo, il tracollo della situazione.

La banalizzazione del male e della tragedia

Forse, in ognuno di questi tre casi di campo di concentramento del presente, è stato un errore non considerare come soluzione quel ponte sempre più utopico tra politica e solidarietà di cui, in realtà, la memoria dovrebbe averci abbondantemente insegnato l’importanza.

Sembra quasi che il ricordare debba essere una reazione esclusivamente limitata ad un passato lontano e non ad un presente che, in molte narrazioni, è descritto come un tempo in cui gli insegnamenti del passato sono stati già abbondantemente interiorizzati.

Il male viene quasi banalizzato assieme alle tragedie del passato, concepite come un apparato mitologico doloroso ma sorpassato, che ci è dato conoscere e commemorare come un antico rituale senza alcuna applicazione nel presente.

Alla memoria del passato e delle vittime della Shoah è giusto accostare una memoria rinnovata, che rifletta anche sul presente per chiedersi: chi sono i nessuno che prevaricano e i nessuno che subiscono oggi?

Chi sono gli inascoltati? Chi merita un gancio in mezzo al buio dei delitti del nostro tempo che li riporti su, alla luce del sole?