Golpe o non golpe, in Birmania continuano senza sosta le proteste per la democrazia. Sale a 550 il numero dei decessi (Aapp), tra questi, secondo Save The Children, almeno 43 sarebbero bambini. Inoltre la popolazione di etnia Rohingya, se già era perseguitata, ora è ancora più pesantemente colpita.
di Naomi Di Roberto – OTHERNEWS
Un’altra spiacevole pagina sul golpe in Birmania. Tra violente uccisioni, violazioni di diritti umani e discriminazioni stiamo assistendo ad una delle repressioni più dure che il Myanmar abbia mai conosciuto.
Le proteste non si fermano, ma non si fermano neanche le repressioni da parte dei militari, sempre più dure e pericolose. In settimana il “giorno più sanguinoso dal colpo di Stato”.
“Il giorno più sanguinoso dal colpo di Stato”
Da Mandalay a Yagon, più di 100 manifestanti pacifici uccisi, tra cui minori, studenti, lavoratori, donne. La Giornata delle Forze Armate in Birmania: un evento che ha davvero scioccato l’intera comunità internazionale. La delegazione Ue in Myanmar l’ha definita come un “giorno di terrore e disonore”.
A Naypyidaw, intanto, si stavano svolgendo le tradizionali parate militari, un modo per ricordare la resistenza contro l’occupazione giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale. Qui il generale Min Aung Hlaing, alla guida del golpe nonché attuale figura al vertice del gabinetto, ha affermato che i militari avrebbero protetto il popolo battendosi per la democrazia.
“Sono profondamente scioccato dall’uccisione di dozzine di civili, compresi bambini e giovani, da parte delle forze di sicurezza oggi in Myanmar” ha twittato Antonio Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite. “La continua repressione militare è inaccettabile e richiede una risposta internazionale ferma, unificata e risoluta”.
Il giorno seguente, durante i funerali delle vittime nella città di Bago, vicino Yagon, le forze di sicurezza avrebbero aperto il fuoco sulla folla in lutto.
Secondo quanto riportato dall’Associazione per l’Assistenza ai Prigionieri Politici (Aapp), sale a 550 il numero delle vittime dall’inizio delle proteste anti golpe.
La risposta internazionale al golpe in Birmania
Washington ha annunciato la sospensione dell’accordo quadro su investimenti e commercio con il Myanmar fino all’elezione di un governo democratico. Gli USA hanno inoltre ordinato al loro personale diplomatico non essenziale di lasciare immediatamente il Paese.
In settimana si è riunito il Consiglio di Sicurezza ONU per valutare iniziative proprio contro il regime militare. Questa era stata richiesta in primis dal Regno Unito, preoccupato per la situazione fuori controllo. Nel Consiglio è stata approvata all’unanimità la condanna delle violenze e le morti civili.
Ricordiamo che, già a febbraio, questa visione era stata ostacolata da Cina e Russia. Non è golpe, ma “un grande rimpasto di governo”. Un qualcosa che richiama alla mente quanto accaduto già nel 2017, durante le crisi Rohingya. Pechino infatti, già in quella occasione, aveva bloccato ogni intervento congiunto del Consiglio delle Nazioni Unite in merito.
Ad oggi, il Consiglio si impegna a rimanere attivo sulla questione, ribadendo anche la necessità di continuare il dialogo e proteggere i diritti umani. Basterà?
L’inviata delle Nazioni Unite in Birmania, Christine Schraner Burgener, ha chiesto al Consiglio di intervenire concretamente sulla questione in modo da prevenire ulteriori spargimenti di sangue.
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Attacchi aerei in Karen
Dopo una serie di attacchi aerei notturni da parte dell’esercito Birmano, più di 10.000 persone di etnia Karen hanno varcato il confine sudorientale per rifugiarsi in Thailandia. Un evento sicuramente significativo: il Karen Peace Support Network ha infatti affermato che l’attacco è avvenuto dopo la ricognizione in elicottero dell’area con due jet da combattimento che hanno sganciato nove bombe. Le aree interessate sarebbero state cinque, tutte nella municipalità di Lu Thaw, nel distretto di Mu Traw.
“C’è motivo di credere che i soldati responsabili lanceranno di nuovo questo attacco aereo nei villaggi lungo il fiume Salween, Mae Nu Hta, Kho Kay incluso il campo IDP di Ei Htu Hta” cinguetta la Karen Women Organization su Twitter. “Il KWO è preoccupato per la loro sicurezza e protezione. È chiaro che l’esercito birmano non ha empatia. Chiediamo una risposta internazionale alle atrocità in atto per inviare il messaggio che i militari non possono più agire impunemente”.
Secondo AssociatedPress, le autorità thailandesi hanno bloccato l’arrivo degli aiuti umanitari costringendo i rifugiati a rientrare nel loro Stato. Tutto ciò nonostante il pericolo di ulteriori bombardamenti, nonché la presenza di jet che continuano oggi a sorvolare i villaggi.
Incendio nel campo profughi dei Rohingya in Bangladesh
Anche la popolazione di etnia Rohingya è duramente colpita. Se già veniva discriminata e perseguitata in Myanmar e costretta a scappare, con il golpe la situazione di queste persone è ancora più drammatica anche fuori patria: sono circa quindici le persone che hanno perso la vita a fine Marzo a causa di un grande incendio scoppiato nel campo profughi Rohingya di Balukhali, nel sud-est del Bangladesh. L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati parla di almeno 400 dispersi, 550 feriti e 45.000 persone rimaste senza alloggio. Le cause dell’accaduto sono ancora da accertare. Operatori umanitari e volontari, intanto, stanno cercando senza sosta tra le macerie ulteriori vittime. L’accaduto non sta facendo altro che peggiorare una situazione già messa in ginocchio dall’emergenza sanitaria, e che aveva spinto il governo del Bangladesh a vietare alla maggior parte degli operatori umanitari di continuare ad assistere i profughi.
Secondo quanto dichiarato a Reuters da Sanjeev Kafley, capo delegazione della Federazione internazionale delle società della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa in Bangladesh, più di un migliaio di personale ha lavorato con i servizi antincendio per estinguere le fiamme. Queste ultime erano distribuite su quattro sezioni del campo contenenti circa 124.000 persone. Da anni ormai i Rohingya vengono trattati da intrusi, stranieri.
Golpe in Birmania: Rohingya sempre più vessati
Circa 170 rifugiati Rohingya che vivono in India sono stati messi in centri di detenzione con la minaccia di essere riportati in Myanmar. Proprio da qui, infatti, questi erano fuggiti da violenze, discriminazioni e violazioni di diritti umani. Secondo quanto riportato da The Guardian, le detenzioni di massa, iniziate nella città di Jammu nel Kashmir, fanno parte di una più ampia repressione a livello nazionale contro i musulmani Rohingya, che sono circa 40.000 in India.
Sabato scorso, sempre secondo quanto dichiarato dal quotidiano che riporta anche parole di testimoni sul posto:
“In centinaia sono stati convocati dalla polizia come parte di un esercizio di “verifica”, altri sono stati presi durante le incursioni nei campi alla periferia della città di Jammu, dove vivono circa 5.000 Rohingya. Sono stati portati in autobus in una prigione nella vicina Hiranagar, che la polizia ha descritto come un “centro di detenzione”. Sono iniziati i procedimenti per la loro deportazione in Myanmar, nel bel mezzo di un colpo di stato e dove i Rohingya rimangono una minoranza pesantemente perseguitata”.
Un popolo che nessuno vuole
La maggior parte dei profughi che vivono nel campo sono scappati anni fa dal Myanmar. Quella dei Rohingya è infatti una minoranza etnica di religione musulmana, considerata tra le più perseguitate al mondo.
Ad oggi, le loro comunità si trovano prevalentemente in Bangladesh (di cui sono originari) e Myanmar. Le loro persecuzioni trovano origine nel lontano 1982 quando la giunta militare li privò della cittadinanza birmana, accusandoli di essere immigrati dal vicino Bangladesh dopo il 1823. In quell’anno, infatti, la Birmania perse l’indipendenza divenendo così una colonia britannica. Questo fattore è un elemento in realtà centrale in tutta la vicenda. Senza la cittadinanza, infatti, i Rohingya non sono non hanno diritto di voto, ma hanno iniziato anche ad avere limitazioni circa sanità, istruzione. Non solo non vengono riconosciuti come cittadini, non sono neanche compresi tra i 135 gruppi etnici di cui il Paese è composto.
Il genocidio dei Rohingya
A partire dal 2017, molti di loro sono fuggiti nel vicino Bangladesh raggiungendo i campi di accoglienza con l’intento di sfuggire dalle violenze messe in atto dall’esercito birmano. Ad agosto era infatti iniziata la crisi in Myanmar con degli scontri tra forze militari birmane e i ribelli Rohingya, nello stato del Rakhine, vicino il Bangladesh. I villaggi incendiati furono circa 280, migliaia i morti. Limes parla di oltre 700mila Rohingya “ammassati” agli oltre 300mila già insediati nel distretto di Cox’s Bazar, nella provincia di Chittagong. I Rohingya emigrati si ritrovano così in condizioni di vita degradanti, costretti in baraccopoli, ed in condizioni precarie.
Il rimpatrio dei Rohingya sarebbe dovuto cominciare nel gennaio del 2018, dopo un accordo bilaterale stipulato proprio da Bangladesh e Myanmar. I profughi, però, non avevano intenzione di tornare nel Paese che li aveva costretti a fuggire anni fa e che, ad oggi, non gli riconosce neanche la cittadinanza. Questo piano avrebbe dovuto coinvolgere inizialmente 1.200 persone; secondo i dati delle autorità, da maggio 2018 a maggio 2019 sono state rimpatriate solo 185 persone.
Il ruolo di Aung San Suu Kyi
Aung San Suu Kyi è stata in questo senso una figura molto criticata a livello internazionale in quanto, il suo governo, avrebbe continuato a dipendere dal potere militare e, allo stesso tempo, ha difeso la persecuzione della minoranza nel 2017. Da molte forze internazionali proprio questa persecuzione era stata definita come un “genocidio“.
Nel momento in cui la situazione si fece insostenibile, la donna affermò che le violenze stavano in realtà avvenendo da entrambe le parti, e definì l’opera dei militari come “antiterroristica”.
La leader fu così criticata che in molti chiesero che gli venisse ritirato il Nobel per la pace. Altri ancora hanno interpretato la difesa delle azioni dell’esercito come un atto di realismo politico. Forse, un tentativo di preservare il fragile processo di democratizzazione del Myanmar.
Ma dopo questi dieci anni di fragile democrazia, la storia si ripete.
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Golpe in Birmania: l’unica verità
Dal 1 febbraio assistiamo quotidianamente ad aggiornamenti su morti e feriti. Una popolazione stremata, ma che neanche l’emergenza sanitaria è stata in grado di fermare.
Non sappiamo quale sia la verità sul golpe in Birmania. Ma, quello che sappiamo, è che stiamo assistendo alla scrittura delle pagine più dure della storia del Paese.