Golpe in Birmania: resistenza e proteste contro il colpo di stato

Dalle elezioni al golpe, in Birmania sempre più forti le manifestazioni da parte dei cittadini contro la violenta presa di potere della giunta militare dopo dieci anni di fragile democrazia.

di Naomi Di Roberto – OTHERNEWS

Immagine di IlPost.it

Non poche le proteste per il golpe avvenuto in Birmania lunedì 1 febbraio, giorno in cui, per opera dell’esercito del Paese, si è arrivati all’arresto di Aung San Suu Kyi, leader del governo e della Lega Nazionale per la Democrazia, Partito vincitore alle elezioni svoltesi lo scorso novembre. A guidare il golpe in Birmania proprio il capo delle forze armate Aung Hlaing il quale, ad oggi, è la figura al vertice del nuovo gabinetto: Hlaing, dopo aver preso il potere con il violento colpo di stato, ha annunciato lo “stato di emergenza” per un anno al termine del quale, secondo le sue stesse dichiarazioni, dovrebbero essere indette le nuove elezioni. La vicenda ha ovviamente interessato non solo la popolazione locale che, ad oggi, chiede solo che il proprio voto venga rispettato, ma anche e soprattutto animi ed interessi delle varie potenze mondiali, con non poche preoccupazioni. Andiamo per gradi.

Birmania: dalle elezioni al golpe

Nelle elezioni legislative tenutesi l’8 novembre scorso, il partito di Aung San Suu Kyi,  la “Lega Nazionale per la Democrazia” (o Nld) avrebbe ottenuto un fortissimo successo, riuscendo a conquistare più dei 322 seggi necessari per formare il governo: un risultato ancora più positivo rispetto a quello ottenuto nel 2015, ricordate come le prime elezioni libere della Birmania (il primo vero voto dal 1990).

La Birmania, ricordiamo, ha una situazione politico-Parlamentare abbastanza particolare: ci sarebbero infatti ben 315 seggi per quanto riguarda la Camera bassa e 161 su quella alta, in entrambe, però, la Costituzione dà un quarto dei seggi ai militari. Militari che, in realtà, nonostante le presenza del governo civile, non si sono mai totalmente ritirati dalla vita politica del Paese, mantenendo non solo ingenti poteri ma anche una fortissima influenza su governo, leader politici e popolazione.

La presa di potere da parte dell’esercito

Nella graduale transizione dalla dittatura alla democrazia iniziata solo nel 2011, in Birmania vige un equilibrio ormai diventato delicatissimo tra i ministeri chiave del Paese, governo civile ed esercito. Proprio quest’ultimo, infatti, controllerebbe circa il 25% dei seggi nel Parlamento: una facoltà che gli permette di avere potere di veto sulla modifica della Costituzione. L’esercito birmano, una volta constatato l’esito delle elezioni, aveva assicurato di avere l’intenzione di proteggere e rispettare la volontà dei cittadini e tutte le norme previste dalla Costituzione… ma qualcosa deve esser andato non secondo i piani.

Per diverse settimane proprio l’esercito avrebbe denunciato tutte le irregolarità che, secondo il loro punto di vista, sarebbero avvenute durante le elezioni che avrebbero portato alla vittoria del partito della Suu Kyi. Già dal 29 febbraio i militari avrebbero minacciato di passare all’azione qualora le accuse di irregolarità non fossero state considerate. Il crescente stato di tensione avrebbe così portato il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, concorde con diverse ambasciate tra cui quella degli Stati Uniti, ad esortare la Birmania nell’aderire celermente alle norme democratiche, rispettando il risultato delle elezioni generali relative all’8 novembre. Ma il colpo il stato si è verificato proprio il 1 febbraio, giorno in cui si sarebbe dovuto riunire per la prima volta il nuovo Parlamento.

Aung San Suu Kyi in arresto

Dal 1 al 15 febbraio il tribunale birmano ha ordinato la detenzione provvisoria per Aung San Suu Kyi per aver violato una legge sull’import-export. Nello specifico, l’accusa è di aver importato illegalmente dei walkie-talkie che, secondo quanto riportato dai media locali, sarebbero stati utilizzati senza permesso dalle sue guardie del corpo. Tutto ciò potrebbe comportare una condanna di almeno due anni di prigione.

In settimana è stato tratto in arresto anche Win Htein, braccio desto della leader democratica, il quale avrebbe rivolto più volte ai media l’invito di opporsi il più possibile ai generali militari. Secondo l’associazione di assistenza ai prigionieri politici (AAPP), con sede a Rangun, più di 130 funzionari e deputati sarebbero stati arrestati solo nell’ultima settimana: un’ulteriore stretta sotto l’occhio attento non solo del Paese, ma anche dello sguardo mondiale, soprattutto di quello americano.

Golpe in Birmania: Biden minaccia sanzioni

Visto l’accaduto, i leader democratici hanno prontamente ammonito l’atteggiamento dell’esercito birmano; primo fra tutti il premier britannico Boris Johnson che, fin da subito, ha condannato il colpo di Stato e l’arresto di Suu Kyi della Lega Nazionale per la Democrazia. “Il voto del popolo deve essere rispettato – ha twittato il premier – e i leader civili rilasciati”.

Anche la risposta di Biden non è tardata ad arrivare. Il Presidente americano avrebbe infatti minacciato il ripristino delle sanzioni che colpivano il Myanmar durante la dittatura della giunta militare, revocate poi da Obama quando i generali avviarono il processo di democratizzazione e non solo. Nelle ultime settimane, inoltre, sarebbero stati inviati circa 350 milioni di dollari in contanti proprio al governo di Myanmar dal Fondo Monetario Internazionale, parte di un pacchetto di aiuti di emergenza senza vincoli per aiutare il Paese contro la pandemia e le difficoltà dovute all’emergenza sanitaria della Birmania.

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Cina: “Non è golpe” 

In una riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, India e Vietnam sull’argomento hanno espresso riserve, mentre Cina e Russia si sarebbero totalmente opposte alla condanna del golpe militare in Birmania. Queste ultime, inoltre, avevano in precedenza tentato di esercitare pressioni sul Myanmar e sulle atrocità commesse contro i Rohingya quando nel 2017 la repressione militare aveva costretto circa 700.000 persone a fuggire in Bangladesh per salvarsi. Un atto definito dall’Onu “di intento genocida”, una situazione che era costata cara alla reputazione Aung San Suu Kyi, tanto che in molti avevano richiesto la revoca del Premio Nobel per la Pace assegnatole nel 1991.

Non è golpe, ma “un grande rimpasto di governo”. Una condanna che, per via del veto di Pechino, non è riuscita ad arrivare neanche dell’Onu. Una situazione che richiama quanto avvenuto nel 2017, proprio durante la crisi Rohingya, quando la Cina aveva bloccato qualsiasi tipo iniziativa del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che avevano proprio il fine di tenere riunioni sul Myanmar e rilasciare dichiarazioni congiunte.

Golpe in Birmania:
Immagine ricavata da “Belt and Road Initiative”

Ma che interessi avrebbe la Cina in tutto ciò? Sicuramente non mancano quelli economici: la Birmania, infatti, è una tappa di centrale importanza del cosiddetto “filo di perle”, la linea dei porti commerciali che i cinesi hanno a partire dal Mar Cinese fino a Suez, e che porterebbe dunque dritto all’Occidente. Inoltre, Pechino, vero partner commerciale della Birmania, avrebbe investito tantissimo nel Myanmar nel corso degli ultimi anni, in particolare nel 2013, dopo il lancio del progetto della Belt And Road : un programma di investimenti che mira allo sviluppo delle infrastrutture e all’accelerazione dell’integrazione economica dei Paesi lungo il percorso della storica Via della Seta.

Golpe in Birmania: concerto di percussionisti per la libertà

Ordinato il blocco ai provider internet del Paese per l’accesso a Facebook, Whatsapp e Instagram. È questo il tentativo dei generali per limitare i messaggi di dissenso circa il golpe in Birmania avvenuto il primo febbraio, negati anche il diritto alla parola e all’informazione. Una mossa da non sottovalutare, soprattutto se si pensa al fatto che proprio negli ultimi giorni il “Movimento di disobbedienza civile” al colpo di stato birmano era stato rilanciato proprio da centinaia di migliaia di utenti sulla piattaforma Facebook con foto di dissidenti della tre dita alzate, oggi simbolo delle manifestazioni nel Paese.

A Yangon, fra le città più grandi del Paese, centinaia di studenti e professori dell’Università di Dagon si sono riuniti per manifestare pacificamente, proteste che oltre alle tre dita della mano alzate hanno cartelli in cui si legge “rilasciate i nostri leader” e “rispettate i nostri voti”. Un dissenso che si è allargato anche  al personale sanitario, medici e dipendenti pubblici che, alle prese con l’emergenza sanitaria, da martedì si presentano al lavoro mostrando la spilla con il nastro rosso della Lega nazionale per la democrazia.

Sui social viene chiamata “rivolta delle pentole“: la popolazione di Yangon, ex capitale della Birmania, ormai messa a tacere dal blocco sui principali social, per la quarta sera consecutiva ieri ha tentato di far sentire la propria voce battendo su pentole, coperchi e bottiglie di plastica, accendendo candele rosse ed alzando al cielo le tre dita della mano.

Cosa ne sarà della democrazia?

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