In Cile il fallimento del modello neoliberista

di Tonino Perna

Rivolta cilena. In questi trent’anni dalla cacciata di Pinochet si sono succeduti governi di centro destra e centrosinistra, che hanno goduto di una sorta di rendita democratica: la fine della paura, la gioia per la libertà riconquistata hanno messo da parte le rivendicazioni sociali per diverso tempo

Per troppo tempo abbiamo sottovalutato il modello cileno, citato da tutti i benpensanti come un modello economico vincente. Va ricordato che sotto la guida dei Chicago boys di Milton Friedman fu fatto il primo grande esperimento di economia neoliberista, ovvero di un processo di privatizzazione e sottomissione ai poteri del cosiddetto «libero mercato» che non si era mai tentato a questo livello. Certo, c’era stato Donald Reagan negli Usa e, soprattutto, la Thatcher in Gran Bretagna che aveva inaugurato lo smantellamento del welfare e la privatizzazione delle aziende di Stato (ferrovie, miniere, ecc.), ma l’esperimento cileno andava al di là di ogni immaginazione.

IN POCHI ANNI, AZZERATI i sindacati, repressa ogni forma di manifestazione, è stato possibile smantellare completamente la funzione sociale dello Stato e ridurla a quella di cane da guardia del profitto delle imprese.

Ogni regola, veniva cancellata per ridurre la società a una grande arena di concorrenza estrema. Pensate solo che i cosiddetti «micro», i bus di Santiago, una volta privatizzati venivano guidati da autisti che pagati a cottimo, in base ai km giornalieri, correvano come pazzi per le strade della capitale, arrivando a fare anche 12 ore di fila di servizio per un salario da fame! Le farmacie, tutte privatizzate, erano «libere» di farsi la concorrenza tra di loro, per cui trovavi il farmacista che metteva i cartelli »3 antibiotici al prezzo di 1» oppure «pacco di 20 aspirine sconto 50%». Ancora: vennero abolite le etichette con l’indicazione degli ingredienti delle bibite gassate (Coca Cola, aranciate, limonate, ecc.), e in altre confezioni alimentari, con la giustificazione che avrebbero alterato la concorrenza (sic!).

Schiacciando ogni reazione sociale, decapitando i leader della sinistra politica e sindacale (quasi mille desaparecidos), dando la totale libertà alle aziende di assumere e licenziare, il Cile divenne una grandissima Zes (Zona economica speciale) che attrasse i capitali nordamericani, anche grazie al sostegno di Reagan che abolì i dazi all’importazione dal Cile di beni alimentari.

È PROPRIO IN QUEGLI ANNI che furono investiti grandi capitali nella produzione di vino che fece sì che dagli anni ’90 il Cile sia diventato uno dei maggiori esportatori mondiali.

La forza di questo modo di produzione si reggeva su tre pilastri. Il primo era quello di essere riusciti a spremere le energie dei lavoratori, a costringere la gran parte della popolazione a lavorare a qualunque livello salariale per sopravvivere. Il secondo è quello già citato della repressione, per cui le imprese non subivano scioperi, controlli della magistratura o da parte di altri organi dello Stato, in un clima che riduceva l’incertezza che accompagna ogni investimento. Infine il terzo, poco conosciuto, è legato alla interiorizzazione del neoliberismo, come un virus che penetra nelle coscienze e le acceca. Con una campagna martellante, dato il controllo totale dei mass media, il regime riuscì sul piano ideologico a insinuarsi nelle menti di una parte consistente della popolazione.

Ebbi modo di constatarlo di persona la prima volta che mi recai in Cile nell’agosto del 1983. Mi ricordo che già il tassista che mi accompagnava all’hotel mi diceva: «». Così un venditore ambulante: «».

ALCUNI DI QUESTI PILASTRI sono rimasti anche dopo l’espulsione di Pinochet dal potere con il Referendum del 1 ottobre 1988. Intanto il generale golpista che aveva fatto uccidere il presidente Allende, democraticamente eletto, che aveva ammazzato migliaia di cileni, non fu né processato, né destituito dalla sua carica militare (erano le condizioni imposte dal governo Usa per avere il referendum). E il modello economico neoliberista subì solo qualche aggiustamento marginale.

In questi trent’anni dalla cacciata di Pinochet si sono succeduti governi di centro destra e centrosinistra, che hanno goduto di una sorta di rendita democratica: la fine della paura, la gioia per la libertà riconquistata hanno messo da parte le rivendicazioni sociali per diverso tempo. D’altra parte bisogna riconoscere che la crescita economica continuava a un tasso medio del 6 per cento e questo significava un basso tasso di disoccupazione ed una riduzione della povertà.

E ALLORA, CI SI DOMANDA, da dove nasce oggi questa protesta di massa? La risposta non è univoca, ma esiste una base materiale imprescindibile: il modello cileno. L’economia cilena è fortemente export oriented, basata su beni alimentari e materie prime, vale a dire settori a basso valore aggiunto in cui la competizione si gioca sul costo del lavoro.

Per reggere la concorrenza internazionale, fattasi più dura in questi ultimi anni, i salari dovevano restare bassi mentre il costo della vita aumentava, l’ascensore sociale scendeva verso il basso, i giovani che si laureavano indebitando le famiglie (40 per cento delle Università sono private) non trovavano più lavori adeguati, la sanità privata è diventata un costo insopportabile per la gran parte delle famiglie. Così la rabbia montava ed è bastato un ulteriore aumento del prezzo del biglietto della metro per far scoppiare la rivolta.

Il miracolo economico cileno è definitivamente finito. La reazione decisamente violenta del presidente Piñera dimostra che un’economia neoliberista regge nel lungo periodo solo all’interno di uno Stato autoritario. Nel medio periodo neoliberismo e democrazia sono incompatibili. https://ilmanifesto.it/in-cile-il-fallimento-del-modello-neoliberista/