di Cecilia Capanna – OTHERNEWS
George Floyd è l’ennesima vittima della brutalità della polizia nei confronti dei cittadini afroamericani, la piaga più vergognosa degli USA.

Un agente di polizia di Minneapolis, mentre lo arrestava, ha messo George Floyd, un cittadino afroamericano, in una “posizione di soffocamento”, una delle prese previste dalle tecniche di immobilizzazione delle arti marziali che in giapponese si chiamano shime-waza (tecniche di costrizione). Una posizione che viene insegnata per forzare un soggetto non collaborativo alla sottomissione ma che riduce la capacità di respirare e, se mantenuta, può portare allo svenimento o alla morte. Chi la mette in pratica lo sa. George Floyd è morto così, soffocato, mentre diceva “non respiro!”
“I can’t breathe! I can’t breathe!” 11 volte lo aveva detto anche Eric Garner, 6 anni fa a New York, costretto nella stessa posizione durante il suo arresto. È morto soffocato anche lui. Morto per un sospetto di frode al fisco per la vendita di sigarette singole da pacchetti senza il bollo delle tasse. Roba che in Italia si consumerebbe un genocidio.
Prima della morte di Eric ne erano successi tanti di fatti di questo tipo. Quell’uccisione però aveva particolarmente colpito l’opinione pubblica proprio per il video con quel grido di aiuto totalmente ignorato. La condanna per omicidio dell’agente e le tantissime proteste per le strade americane avevano fatto sperare in un sigillo, un punto e fine della storia, e nell’inizio di un nuovo libro di giustizia tutto da scrivere. Purtroppo invece di omicidi di afroamericani perpetrati dalla polizia ce ne sono stati moltissimi altri, tra cui quello di Mario Woods a San Francisco, crivellato da numerosi colpi di arma da fuoco per mano di almeno 7 agenti, perché aveva un coltellino a serramanico in mano mentre vagava barcollando in evidente stato di ebbrezza.
“I can’t breathe! I can’t breathe!” è diventato così lo slogan di chi scende in strada per protestare al fianco di organizzazioni come Black Lives Matter, ogni volta che uno di questi ignobili fatti si verifica e viene messo agli atti nei records dell’FBI. Dal 2015 il Washington Post ha iniziato un’indagine indipendente: ha cominciato a tenere il conto delle sparatorie mortali per mano della polizia raccogliendo dati da giornali locali, registri pubblici e social media. Ha rilevato che gli agenti di polizia sparano e uccidono circa 1.000 civili ogni anno, quasi il doppio del numero calcolato dall’FBI. Anche 500 sarebbero stati comunque tantissimi!
Ma cosa c’è dietro a questi poliziotti criminali definiti mele marce per farne casi isolati? Di sicuro il nuovo vigore delle frange di estrema destra e di suprematisti bianchi non aiuta a porre fine a queste vergogne ma nemmeno le spiega, perché la radice è profonda e va cercata in un razzismo subdolo, che si nasconde nelle pieghe estreme di tutto il sistema “meritocratico” made in USA.
Quando mi trasferii negli USA, 7 anni fa, la prima cosa che mi colpì come un forte pugno allo stomaco fu constatare nella quotidianità che la segregazione e il razzismo nei confronti dei cittadini afroamericani ci sono ancora e sono disgustosamente mascherati da una spessa patina di ipocrisia che non riesce comunque ad impedire che trapeli il pensiero latente di troppi bianchi, ancora distorto, fatto di mille cliché, retaggio di secoli di sottomissione e di discriminazione nei confronti di persone i cui diritti sono falsamente uguali a quelli dei bianchi e che fanno difficoltà ad integrarsi.
Potrei raccontare delle vere e proprie città o quartieri ghetto dove sin dal sistema scolastico si perpetrano ingiustizie ed iniquità nei confronti dei neri. O dei sistemi per cui viene reso impossibile a compratori che non siano bianchi l’acquisto di case in zone residenziali.
Potrei raccontare il mio surreale scambio di vedute con un sedicente professorone, un fisico, mentre teorizzava un parallelismo tra le “razze umane” e quelle dei cani, per cui i neri sono come i pit-bull, cattivi geneticamente.
Potrei ancora raccontare di un amico jamaicano, arrivato da bambino negli USA e miracolosamente riuscito a saltare tutti gli ostacoli per diventare un affermato manager, costretto a farsi fare un tesserino speciale dal cognato poliziotto per evitare di essere fermato dalla stradale 54 volte l’anno, la media di “pullover” che devono subire i cittadini afroamericani, soprattutto se alla guida di una bella macchina.
Eppure nell’immaginario collettivo la rivoluzione culturale della fine degli anni ’60, l’attivismo del Black Panthers Party e del Dr. Martin Luther King, e l’assassinio di quest’ultimo e di molti attivisti, sembravano aver rappresentato la svolta. Una svolta d’apparenza invece.

E come ai tempi succedeva che artisti, soprattutto musicisti, davano voce alla diaspora afroamericana sulle note del blues, del jazz, e più tardi con la cultura Hip Hop, oggi è in prima linea il mondo dello sport.

Primo tra tutti, oltre a famosissimi come il cestista Lebron James, è Colin Kaepernick, un giocatore di football americano, che nel 2016 ha cominciato la protesta silenziosa “I Know my rights”. Si inginocchiava senza cantare durante l’inno nazionale all’inizio di ogni partita, perché “le parole di libertà, di giustizia e uguaglianza di quella canzone non corrispondono alla realtà” e perché “se sei nero rischi di essere ucciso dalla polizia due volte e mezzo in più di un bianco”. La sua protesta gli è costata la carriera, ad oggi è escluso dalla NFL ed è senza contratto da tre anni.
Questo è il costo minimo per chi scoperchia il velo dell’ipocrisia negli USA. Ci si chiede quanto ci vorrà e cosa dovrà succedere ancora perché la sbandierata America multietnica, liberale e giusta, lo sia non solo a parole incise ai piedi della Statua della Libertà, ma anche nei fatti.