Processo ad Aung San Suu Kyi iniziato in segreto: l’avvocato della donna non era stato avvisato e, al momento del suo arrivo, l’udienza era già finita. Spuntano nuove accuse da parte dei militari, ma le proteste per il rispetto del voto non si fermato. Scritta una nuova pagina del golpe in Birmania, ma chi è davvero la sua famosissima protagonista?
di Naomi Di Roberto – OTHERNEWS
Martedì 16 febbraio è iniziato in maniera totalmente segreta il processo ad Aung San Suu Kyi, leader del governo nel Myanmar e della Lega Nazionale per la Democrazia. Il Partito, risultato vincitore alle elezioni svoltesi lo scorso novembre, era riuscito a conquistare più dei 322 seggi necessari per formare il governo. Aung San Suu Kyi, arrestata lo scorso il 1 febbraio, dopo un colpo di Stato da parte dell’esercito, ad oggi è accusata di:
- aver interagito con la folla durante la pandemia, e quindi di aver violato la legge sulla gestione dei disastri naturali;
- aver violato la legge import-export: nello specifico l’accusa ritiene che la donna abbia importato illegalmente dei walkie-talkie che, secondo quanto riportato dai media locali, sarebbero stati utilizzati senza permesso proprio dalle sue guardie del corpo.
Si tratta di accuse comunque pretestuose, ma per cui la donna rischia una condanna da 3 a 6 anni di carcere. Il suo avvocato non era stato avvisato del processo e, al momento del suo arrivo, l’udienza era già finita.
Fin dal momento del suo arresto e della presa di potere da parte dei militari, fortissime sono state le proteste da parte della popolazione birmana a cui, fin da subito, sono stati negati diritti come quello d’informazione e di espressione. Sui social viene chiamata “rivolta delle pentole”: la popolazione di Yangon, ex capitale della Birmania, ormai messa a tacere dal blocco sui principali social, ha tentato infatti di far sentire la propria voce battendo su pentole, coperchi e bottiglie di plastica, accendendo candele rosse ed alzando al cielo le tre dita della mano, ormai simbolo delle proteste.
Aung San Suu Kyi a processo: tra le donne dissidenti più famose al mondo
Figlia di Aung San, capo della fazione nazionalista del Partito Comunista della Birmania, e di Khin Kyi, una delle donne di maggior rilievo nella storia politica del Paese (tanto da divenire ambasciatrice d’India nel 1960), Aung San Suu Kyi è sicuramente una figura di spicco, complessa e poliedrica.
Prima come attivista per la democrazia, per la difesa dei diritti umani, e poi come figura politica del suo Paese, oppresso tutt’oggi da un fortissimo potere militare, la donna è da oltre trent’anni protagonista della storia della Birmania e della sua lotta per i diritti. Tra il 1989 e il 2010 trascorse oltre quindici anni in prigione o agli arresti domiciliari: in questo periodo divenne tra le dissidenti più famose del mondo.
Rivolta 8888: la lotta per la democrazia
Il suo impegno politico inizia nel 1988 quando a 17 anni, dopo diversi anni trascorsi a Nuova Delhi, torna nel Myanmar trovando un Paese in ginocchio, estremamente impoverito dagli oltre trent’anni di dittatura militare. Quell’anno la Birmania fu scossa da un fortissimo movimento di protesta dovuto all’estrema povertà della popolazione, dalla crescita del debito pubblico nonché dal peggioramento dell’economia nazionale, e che portò alle dimissioni del dittatore militare Ne Win, al potere dal 1962.
Nonostante ciò, i militari non vollero abbandonare il potere. Le proteste continuarono, si fecero più forti fino alla rivolta ricordata come “Rivolta 8888”, iniziata l’8 agosto 1988, prima a Ragoon e poi estesasi per tutto il Paese. Con il fine di ottenere la democrazia, strade e piazze si riempirono con migliaia di manifestanti provenienti da tutte le classi sociali rivendicando a gran voce la necessità di uno Stato democratico. Le proteste venivano combattute con violenza, con l’utilizzo di gas lacrimogeni e quella di Rangoon (16 marzo 1988) viene ricordata come una delle più volente, giorno in cui la polizia caricò gli studenti che stavano manifestando e ne ammazzò circa 200 a bastonate sul ponte bianco del lago Inya, che dopo il sanguinoso attacco fu chiamato ponte rosso.
Il ruolo della leader del Myanmar nelle proteste
Fortemente influenzata dall’esempio dei genitori, della lotta non violenta di Gandhi e dai valori buddisti, Aung San Suu Kyi si fece coinvolgere nel movimento a favore della democrazia: pur non avendo una vera esperienza politica, aderì alle proteste scrivendo una lettera in cui chiese al governo di formare un Comitato per indire le libere elezioni. Il 26 agosto dello stesso anno tenne un discorso alla Pagoda Shwedagon davanti a mezzo milione di persone in cui chiese alla folla di cercare la pace con mezzi non violenti. Aung San Suu Kyi divenne subito il simbolo del movimento democratico nazionale.
L’esercito riprese il controllo diretto del Paese il 18 settembre con un colpo di Stato guidato da Saw Maung: per suo volere la Costituzione del 1974 venne abrogata, furono imposte rigide misure di sicurezza nonché la legge marziale. San Maung si mise inoltre subito a capo della nuova giunta militare, il Consiglio di Stato per la Restaurazione della Legge e dell’Ordine. I militari stroncarono le proteste sparando sulla folla e, a fine mese, si contarono circa 3 000 morti tra i dimostranti, dei quali 1 000 nella sola Rangoon (c’è da sottolineare che molti cadaveri vennero cremati perciò il conteggio è solo indicativo).
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Un impegno da Premio Nobel?
In opposizione a tale regime, Aung San Suu Kyi partecipò alla fondazione della Lega Nazionale per la Democrazia, divenendone anche segretario generale. L’idea era quella di creare un Partito di opposizione alla durissima dittatura militare di Maung e, nonostante le proibizioni da parte del regime, la donna tenne diversi incontri e comizi in giro per il Paese proprio in nome della democrazia: un’idea che però le costò gli arresti domiciliari nel 1989. Ed era ancora agli arresti quando trionfò alle elezioni l’anno dopo, conquistando l’81% dei seggi. Ma i militari si rifiutarono di cederle il potere annullando il risultato.
Trascorse quasi 15 anni in carcere o agli arresti domiciliari tra il 1989 e il 2010, anno in cui fu definitivamente liberata. La donna fu anche prigioniera politica, leader della non violenza conosciuta ed ammirata in tutto il Mondo, simbolo della lotta alla democrazia della Birmania tanto da vincere il Premio Sakharov per la libertà di pensiero nel 1990 ed il Nobel per la Pace l’anno successivo, nel 1991. A suo nome, nacquero anche diversi movimenti internazionali di sostegno per la sua liberazione.
Dalle elezioni al golpe: una storia che si ripete
Con la Lega Nazionale per la Democrazia Aung San Suu Kyi avrebbe ottenuto fortissimo successo sia nel 2012 (inizio della graduale transizione dalla dittatura alla fragile democrazia), sia nel 2015 ricordate come le prime elezioni libere della Birmania: il primo vero voto dal 1990.
Anche questa volta la storia si è ripetuta: nelle elezioni legislative tenutesi l’8 novembre 2020, il partito di Aung San Suu Kyi avrebbe ottenuto un fortissimo successo riuscendo a conquistare più dei 322 seggi necessari per formare il governo: un risultato ancora più positivo rispetto a quello ottenuto nel 2015.
Per diverse settimane le forze militari avrebbero denunciato tutte le irregolarità che, dal loro punto di vista, sarebbero avvenute durante le elezioni: irregolarità che hanno portato all’arresto della leader del Myanmar lo scorso 1 febbraio e che pone la Birmania nuovamente sotto l’occhio attento delle forze internazionali. Da allora non sono smesse neanche per un giorno le proteste da parte della popolazione birmana che non chiede altro che il proprio voto venga rispettato.
Il genocidio dei Rohingya
Ad agosto del 2017, era iniziata la crisi in Myanmar con degli scontri tra forze militari birmane e i ribelli Rohingya nello stato del Rakhine, vicino il Bangladesh. Quella dei Rohingya, minoranza entnica musulmana in un Paese a maggioranza buddista, è una tra le realtà più perseguitate al mondo, considerati una minaccia alla razza ed alla religione. Dal 1948, anno d’indipendenza del Myanmar, i Rohingya hanno infatti costantemente perseguitati, subendo diverse forme di discriminazione, violazione di diritti umani tra cui il mancato conferimento della cittadinanza birmana, limiti nei movimenti.
Nel giro di pochissime settimane, circa 700.000 Rohingya hanno trovato rifugio nei campi profughi del Bangladesh, superando quindi il confine. Le violenze commesse dai soldati birmani e dall’esercito – i cui vertici, secondo l’ONU, dovrebbero essere processati – sono state enormi: uccisioni indiscriminate, incendi di interi villaggi e stupri diffusi e sistematici.
Il rimpatrio dei rohingya sarebbe dovuto cominciare nel gennaio del 2018, dopo un accordo bilaterale per il rimpatrio stipulato proprio da Bangladesh e Myanmar. Questo avrebbe dovuto coinvolgere inizialmente 1.200 persone, ma sono stati poi loro stessi -i Rohingya- ad opporsi, affermando che la situazione in Birmania non offriva loro garanzie sicure. Il Paese, infatti, sembra abbia fatto ben poco, se non nulla, per assicurare alla minoranza un cambiamento delle condizioni che hanno portato al genocidio.
Secondo i dati delle autorità, da maggio 2018 a maggio 2019 sono state rimpatriate solo 185 persone.
Aung San Suu Kyi e le persecuzioni dei Rohingya
Pur rimanendo molto popolare, Aung San Suu Kyi è stata in seguito molto criticata a livello internazionale. Il suo governo, infatti, ha continuato a dipendere dal potere militare e, allo stesso tempo, ha ignorato, e poi difeso, la persecuzione della minoranza musulmana dei Rohingya compiuta proprio dai militari dal 2017 e considerata da molte organizzazioni internazionali come genocidio.
Aung Suu Kyi, infatti, nelle sue apparizioni pubbliche provò ad ignorare la crisi dei Rohingya ma, nel momento in cui la situazione divenne insostenibile, decise di prendere le parti delle forze militari. La leader del Myanmar affermò che le violenze stavano avvenendo da entrambe le parti e definendo l’operato da parte dei militari come “anti-terroristica”.
In Occidente in moltissimi hanno chiesto che le venisse ritirato il Premio Nobel per la Pace, altri ancora hanno interpretato la difesa delle azioni dell’esercito da parte di Suu Kyi come un atto di realismo politico e un tentativo di preservare il fragile processo di democratizzazione del Myanmar.
Chi è Aung San Suu Kyi?
Tra critiche ed applausi, sicuramente Aung San Suu Kyi è un personaggio di spicco all’interno della scena mondiale, una donna che, tra luci ed ombre, fin da giovanissima ha dato del filo da torcere alle dinamiche della politica nazionale ed internazionale della Birmania.
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