NOI, CHE FORSE DA ORBÁN DOVEVAMO ASPETTARCELO

di Gianfranco Maselli OTHERNEWS

Viktor Orbán

Siamo orgogliosi che, nel corso dei secoli, il nostro popolo abbia difeso l’Europa combattendo e, con il suo talento e la sua diligenza, abbia contribuito alla crescita del suo patrimonio comune.

Promettiamo di mantenere l’unità intellettuale e spirituale della nostra nazione lacerata dalle tempeste del secolo scorso.

[…] Ci impegniamo per la cura e la protezione del nostro patrimonio, della nostra lingua unica, della cultura, delle lingue e delle culture delle minoranze nazionali, dei tesori della natura e quelli frutto del genio umano nel bacino dei Carpazi”.

Tutto estremamente bello, non c’è che dire. In un momento storico come quello che stiamo vivendo forse le parole che ho riportato e che avete letto potrebbero suonare benissimo come un conforto, considerando il mood in cui versiamo.

Abbiamo capito in definitiva che si tratta di una crisi globale complessa. In più una tale restrizione delle libertà personali come quella che stiamo vivendo non si era mai vista dai tempi del secondo dopoguerra. Nemmeno nei mesi più caldi degli Anni di Piombo e delle stragi di mafia, si erano utilizzate misure tanto estreme quanto quelle attuate dalle nazioni per arginare la diffusione del Covid-19.

Abbiamo capito anche che questo presente dimostra, o meglio ci ricorda, quanto sia semplice instaurare un regime autoritario mascherandolo da “risposta” ad un’emergenza.

Fra tutti quanti, tuttavia, Viktor Orbán non sembra aver bisogno di un promemoria storico anzi, sembra non aver mai dimenticato in tutti questi anni che il potere autoritario, la repressione della libertà e la discriminazione delle minoranze sono muri che vanno costruiti, da sempre, lentamente e con astuzia.

In questi ultimi giorni ci chiediamo come abbia fatto il premier Ungherese ad ottenere pieni poteri usando come pretesto il Coronavirus. Forse dovremmo smettere di analizzare il presente sistematicamente e cominciare a valutare l’idea di un disegno strategico che si dipana in tutto il recente passato politico e costituzionale Ungherese.

I pieni poteri sono infatti soltanto l’ennesimo mattone di un muro autoritario costruito in silenzio sotto lo sguardo europeo, un muro che avrebbe nella sua prima impalcatura portante proprio la Costituzione di cui avete letto uno stralcio all’inizio di questo articolo.

Proprio un testo così rassicurante e apparentemente innocente contiene la legittimazione che Viktor Orbán ha usato per giustificare 10 anni di manovre antidemocratiche, illiberali e autoritarie.

La costituzione in questione ha una storia molto giovane: è stata approvata il 19 aprile 2011 ed ha sostituito la precedente Costituzione del 1949, redatta in regime di occupazione sovietica. Sebbene possa apparire come una bella e corretta preghierina che sancisce “lo stato di diritto, indipendente e democratico del paese e la garanzia dei diritti inviolabili ed inalienabili dell’uomo” e dei diritti di libertà e proprietà propri di ogni Stato borghese con particolare attenzione alla famiglia e ai minori, contiene anche delle sorprese.

Fra gli articoli finali se ne ritrova una, quella nell’art. 53 che disciplina lo Stato di eccezione o di emergenza, ovvero il fondamento costituzionale della legislazione d’emergenza imputata. È proprio grazie a questa sorpresa che Viktor Orbán ha costruito un sistema in base al quale, in ogni momento e senza nessuna opposizione, gli è consentito trasformare il paese in una dittatura, rispettando dunque un meccanismo che, in realtà, è perfettamente conforme alla Costituzione da lui stesso introdotta.

Così dunque ha fatto, facendo approvare una legge che gli concede pieni poteri durante tutta la durata dell’emergenza pandemica che, più che un pretesto, è stata l’occasione migliore per accendere un interruttore pienamente costituzionale, già da tempo latente.

La differenza con le altre manovre europee che in queste settimane ci costringono a rimanere in casa restringendo le nostre libertà personali? La mancanza di un limite temporale e la spregiudicatezza nel dichiarare che quest’ultimo è appannaggio unicamente dell’esecutivo stesso e del suo volere, come previsto dalla Costituzione.

A chi rifugge ogni panorama buio e distopico ed esclude, a priori, che una manovra del genere possa essere portata avanti perpetuamente vorrei ricordare come pochi anni fa la questione immigrazione di massa nel paese è stata affrontata da Fidesz, il partito sovranista fondato e guidato da Orbán.

Per arginare il problema, 5 anni fa, venne dichiarato uno stato di crisi che, incredibilmente, è ancora in vigore tutt’oggi dal 2015 e viene prorogato continuamente, l’ultima volta, l’ottava, il 5 marzo scorso.

Sembra trattarsi di un’emergenza insolitamente infinita ma, soprattutto, di una manovra eccessiva, considerando che già dal 2018 l’immigrazione nel paese si era ridotta di 37mila unità rispetto al 2017.

Assieme a ciò sarebbe approssimato da parte mia non citare tanti altri mattoni che, disseminati negli anni con audacia mista a pazienza, hanno contribuito a formare quel muro di illiberalità che solo oggi ci appare come tale.

Parte del muro è la legge Stop Soros del 2018, che mira a colpire chiunque si impegni nell’aiuto di migranti irregolari, sia che si tratti di ONG sia che a prodigarsi siano privati cittadini, punibili col carcere fino ad un anno qualora siano colti in fragranza di qualsiasi tipo di soccorso come assistenza, fornitura di cibo e distribuzione di volantini che contengano informazioni utili ai richiedenti asilo.

Nello stesso anno la giornata del 17 dicembre diventa un giorno difficile da dimenticare per gli Ungheresi.

Quella che era stata pubblicizzata come una legge a favore sia delle imprese nel trovare manodopera, poi ribattezzata più adeguatamente Legge Schiavitù, consentiva in questa data ai datori di lavoro di chiedere ai loro dipendenti di svolgere fino a 400 ore di straordinario all’anno e di ritardarne il pagamento anche per tre anni.

Mentre più di 15.000 cittadini ungheresi scendevano in piazza per animare proteste poi pesantemente represse con l’uso indiscriminato di cariche e lanci di gas lacrimogeni da parte della polizia, lo stesso giorno il parlamento adottava una legge che creava un nuovo sistema di giustizia amministrativa, privo d’indipendenza e sotto il controllo del ministero della Giustizia.

Il disegno di Fidesz diventa, pericolosamente, sempre più nitido.

Dopo l’espulsione dell’Università fondata da Soros, dopo la legge per portare tutti media sotto la Central european Press and Media Foundation dell’Orbániano Gabor Liszkay al fine di controllare l’informazione mainstream, dopo l’accentramento a sé del potere di scegliere i direttori dei teatri del Paese, dopo aver costituito un consiglio statale per la cultura per dirigerla secondo le direttive nazionali, dopo aver posto tutta la ricerca scientifica sotto il controllo del Governo per mezzo 40 istituti pubblici di ricerca gestiti dirigenti nominati dal governo, quest’ultimo accoglie nelle sue mani anche il potere giudiziario.

Ben 3 anni fa si eliminava ogni separazione tra i poteri e ogni cosa veniva sottomessa all’esecutivo.

Noi, che forse dovevamo aspettarcelo, oggi siamo ancora qui a fare quello che sappiamo fare meglio: polarizzare il dibattito, negare il problema o guardare ai pieni poteri di Viktor Orbán come una svolta eclatante piuttosto che considerare quanto è accaduto come l’ennesimo tratto di un oculato disegno cominciato anni fa.

Oggi, mentre il governo inasprisce la sua brutale politica omofoba colpendo i cittadini transgender con divieto di cambio di sesso biologico e di registrazione del nuovo gender sui documenti di identità di chi abbia già effettuato in precedenza il cambio ci si chiede: dov’è l’opposizione? E l’Europa?

Alla prima domanda è piuttosto facile rispondere.

La costituzione del 2012 è stata approvata dal Parlamento di Budapest a maggioranza dei deputati di Fidesz, partito che tutt’oggi detiene la maggioranza nell’Assemblea, un modo elegante per dire che esercita su quest’ultima un controllo pieno che è giunto, negli anni, a svuotare completamente l’opposizione del suo potere.

Nelle ultime tre legislature Orbán ha costruito infatti un sistema, che nei fatti, non è più democratico ma basato sullo strapotere della maggioranza. Lo ha fatto in modo unilaterale, senza ascoltare le forze dissenzienti e usando i numeri della sua schiacciante maggioranza, rimanendo nel formale perimetro del rispetto della legge.

Per farlo ha forzato e piegato al suo volere regole e norme, ha svuotato di significato e prerogative le istituzioni democratiche, nascondendosi dietro a una logica semplicissima:

Afferma di agire sempre nel rispetto del dettato della legge pur facendo qualcosa di fortemente criticabile, scagliando eventualmente il dito contro altri paesi europei dove, ad esempio, il rapporto tra esecutivo e giornalisti è altrettanto stretto o dove i sistemi parlamentari sono, allo stesso modo, imperfetti o sbilanciati.

Ciò che però differenzia dagli altri paesi l’Ungheria di Orbán è che questa si avvale di un modello politico semidemocratico chiamato autoritarismo competitivo, un sistema in cui la competizione sopravvive ma è pesantemente svuotata di forza, falsata a favore del partito al potere e della sua imbarazzante maggioranza.

Alla seconda domanda, invece, rispondere sembra essere più difficile.

Forse, piuttosto che chiedersi dove sia l’Europa in questa situazione sarebbe più opportuno chiedersi dove sia stata per tutto questo tempo.

In questo caso la risposta è tanto più facile quanto triste: l’UE ha assistito alla deriva autoritaria del paese sin dal 2010. Di fronte all’erosione delle garanzie democratiche, della giustizia, della sanità, di fronte alla brutale propaganda contro migranti e minoranze, alla soppressione della libertà di stampa e di insegnamento l’Europa sembra quasi sia rimasta a guardare, continuando a sostenere le casse Ungheresi con circa 6 miliardi all’anno di fondi comunitari.

Nonostante 2 giorni fa Marija Pejcinovic Buric, segretaria generale del Consiglio d’Europa, abbia ribadito in una lettera inviata a Viktor Orbán come «le misure che gli stati membri prendono nelle attuali circostanze straordinarie della pandemia debbano attenersi alle Costituzioni nazionali e agli standard internazionali», i pensieri di un Europa con le mani legate ci fanno visita sempre più frequentemente durante gli ultimi giorni.

Mentre la delusione, sempre più cocente, ci riporta alla mente come il Consiglio d’Europa sia nato proprio per assicurare il rispetto della democrazia pluralista, dei diritti umani e della preminenza del diritto, non possiamo non chiederci se l’UE sia ancora in grado di invertire la deriva Ungherese e continuare a garantire la tutela di questi 3 valori, gli stessi che Orbán sta calpestando da tempo.

Per tanti la solitudine in questo periodo di isolamento è uno dei nemici quotidiani più temuti ma se la risposta alla domanda nel paragrafo precedente dovesse esser negativa allora potremmo ritrovarci la Democrazia in quarantena, assieme a noi, e quella potrebbe essere la più triste delle compagnie.