È finita la luna di miele tra Trump e i social media

di Guglielmo Rezza OTHERNEWS

Mentre Trump viene tradito proprio dal suo amato Twitter, Facebook si trova costretto a valutare la propria posizione

I social media rappresentano, ormai, un elemento imprescindibile della comunicazione e/o propaganda politica contemporanea: piattaforme come Twitter o Facebook amplificano il potenziale di un messaggio di raggiungere il proprio destinatario, prescindendo da dove esso si trovi o quando abbia la possibilità di leggerlo. Essere social è un requisito necessario per fare politica e tutti hanno compreso la lezione: sulla stesse piattaforme si esprime una moltitudine incalcolabile di attori politici, che vanno dal politico di provincia che fa campagna elettorale per diventare membro della giunta comunale, al Segretario Generale dell’ONU che fa dichiarazioni sulla crisi internazionale o giornata mondiale di turno, passando per il portavoce dei Talebani che si esprime sul processo di pace -non è un iperbole a caso, Suhail Shaheen ha un account Twitter se mai vi dovesse interessare- sino, ovviamente, al Presidente degli Stati Uniti d’America.

Abbiamo avuto modo di osservare lo stretto -potremmo anche azzardare morboso- rapporto tra Donald Trump e social media, specialmente Twitter. Ridurre le cause stesse dell’elezione di Trump alla sua intensa attività su Twitter e Facebook è certamente riduttivo, ma è al contempo impossibile negare che esse abbiano giocato un ruolo importante nella diffusione e promozione del suo messaggio politico. Sia prima che durante il suo mandato Trump ci ha regalato dei tweet difficilmente dimenticabili, ma il rapporto tra il Presidente e Twitter sembra attraversare un momento particolarmente difficile.

Il rapporto tra Trump e Twitter ha cominciato a deteriorarsi mercoledì 27 Maggio, quando l’azienda ha deciso di segnalare come fuorviante un tweet del Presidente circa presunti brogli elettorali che avverrebbero col voto postale, apponendo sul post un link che rimanda a un articolo della CNN così da permettere il fact-checking del contenuto del post. Non è la prima volta che l’azienda rimuove o interviene con tweet di Capi di Stato, ma la prima in cui si permette di interferire con un post di nientedimeno che il Presidente degli Stati Uniti, il quale ha ovviamente minacciato ritorsioni.

Detto fatto, nella giornata di giovedì 28 Maggio, Trump è passato ai “fatti”, firmando l’ordine esecutivo che dovrebbe avviare la revisione della Section 230 del Communication Decency Acts del 1996. Qualora ancora non sapeste in cosa consiste questa fantomatica Section 230 possiamo dire, in parole molto povere, che opera una distinzione fondamentale tra la categoria degli editori e i gestori di siti di web, per cui questi ultimi non possono essere considerati responsabili per i contenuti che vengono pubblicati sulle piattaforme da essi gestiti.

I sostenitori di Trump sostengono però che un gestore di una piattaforma online, nel momento in cui interviene sui post, anche semplicemente aggiungendo avvertimenti o operando un fact checking dei contenuti, dovrebbe cessare di essere tutelato dalla Section 230, poiché diventa assimilabile a un editore. Al di là del dibattito circa la legittimità o meno di queste argomentazioni, è importante notare che il processo legislativo per rivedere la Section 230 sarà lungo e complesso e potrebbe dilungarsi ben oltre le elezioni di Novembre.

Twitter, invece, ha reagito immediatamente, ponendosi in crescente contrapposizione col Presidente. Nello specifico, nella giornata di venerdì, Trump, in un momento di pausa tra un’ispezione del bunker e l’altra, -infatti, come ha dichiarato in un’intervista a Fox News, non è stato assolutamente portato nel bunker per ragioni di sicurezza, bensì per una credibilissima ispezione- twittato il discusso “When the looting starts, the shooting starts” (Quando si comincia a saccheggiare, si comincia a sparare). Dopo infinite segnalazioni da parte degli utenti il post è stato dunque nascosto da Twitter, anche se non rimosso, poiché violava le regole della piattaforma circa l’esaltazione della violenza.

La schermaglia è proseguita nei giorni seguenti, nel corso dei quali diversi post del Presidente sono stati oggetto di fact checking. L’ultima umiliazione è stata la rimozione di un video su George Floyd di circa quattro minuti, nel quale si poteva sentire un discorso Trump accompagnato da immagini e video di sottofondo: tra l’altro, nel video, il Presidente afferma che rivoltosi, saccheggiatori e anarchici hanno disonorato la memoria di George Floyd e che a capo delle violenze vi siano antifa e gruppi radicali di sinistra. La motivazione ufficiale è stata la violazione di copyright, ma siamo di fronte a una netta presa di posizione di Twitter.

Mentre Twitter veniva, gradualmente, sempre più coinvolto nel confronto, Facebook, dal canto suo, provava silenziosamente a defilarsi. Il social media per eccellenza si è infatti rifiutato di rimuovere o oscurare i post e Zuckerberg ha goffamente provato ad adottare una posizione di compromesso, affermando che era personalmente in disaccordo con le posizioni di Trump, ma che ognuno dovrebbe essere nella posizione di giudicare da sé e che, in sostanza, lo scopo di Facebook è quello di incoraggiare una discussione più aperta possibile. È stato reso noto, d’altronde, che Zuckerberg ha avuto un colloquio con Trump il 29 Maggio, sebbene nulla sappiamo sul contenuto della chiamata tranne che si è trattato di un colloquio “produttivo”, così come è stato definito.

Zuckerberg ha quindi disperatamente cercato di sottrarsi al conflitto, ma il discusso uomo d’affari si è trovato ad essere accusato di connivenza col potere. Alle critiche provenienti da utenti ed esponenti della società civile si sono aggiunti quelle dei suoi stessi che dei suoi stessi dipendenti, che hanno utilizzato tutti i mezzi forniti dalla piattaforma stessa -post e messaggi- per manifestare il proprio dissenso. Zuckerberg si è trovato in una posizione non affatto invidiabile, stretto tra l’incudine del Presidente Trump e il martello degli utenti e dei dipendenti della piattaforma.

Così, venerdì, Zuckerberg ha apparentemente fatto la sua scelta, annunciando che Facebook, preso atto delle critiche ricevute, rivedrà le sue politiche in materia di revisione dei contenuti. Del resto il fact checking e la rimozione di contenuti che incitano o esaltano la violenza sono già in vigore per gli utenti standard e non è quindi chiaro perché, se non per ragioni di convenienza, ciò non dovrebbe valere anche per esponenti politici.

Facebook, messo alle strette, sta dunque cercando, almeno stando alle dichiarazioni del suo CEO, di rincorrere Twitter. Bisognerà, innanzitutto, verificare se queste parole si tradurranno in fatti e se nelle valutazioni di Zuckerberg prevarrà il desiderio di mantenere buone relazioni con Trump oppure la paura di essere superato dal concorrente Twitter e delle reazioni di utenti e dipendenti. Twitter ha fatto il primo passo e Facebook sembra essersi finalmente deciso a rincorrerlo.