Infodemia, il caos dell’informazione durante il Covid-19

di Gianfranco Maselli – OTHERNEWS

La commissione europea accusa Russia e Cina di aver inquinato il mare dell’informazione complicando la gestione dell’emergenza pandemia.


Nel grande mare dell’informazione ci si bagna in tanti da sempre, eppure in pochi sembrano aver imparato a nuotarci per davvero. Spingersi al largo e, soprattutto, andare a fondo alla notizia sembrano prodezze dal prezzo troppo alto ai più, soprattutto se richiedono una lunga apnea in cui limitarsi a trattenere il respiro non basta.

Se accettassimo di scendere nell’abisso nascosto dalla superficie ricordandoci di tenere gli occhi aperti, potremmo godere di un fondale di approfondimenti ricchissimo. Con un po’ pazienza, impareremmo a conoscere le storie alla base di ogni fatto e la spazzatura disinformativa disseminata nel fondale da chi manca di rispetto nei confronti di quel bene prezioso che è l’informazione.

All’Europa questo mare e le sue problematiche stanno evidentemente a cuore, così tanto da aver coniato recentemente una parola che descrive il fenomeno di disinformazione virale, Infodemìa, un termine nuovo che unisce una parola simbolo del attualità con un problema mai superato che ha radici antiche: quello di un’informazione distorta che produce effetti pericolosissimi.

Il termine Infodemiacompare nella recente denuncia del primo rapporto della Commissione europea sulla disinformazione relativa alla pandemia. Nel rapporto si parla fin troppo chiaro, rinunciando a giri di parole e indicando già i nomi dei principali colpevoli: nessuna accusa viene risparmiata nei confronti di Russia e Cina.

Per il team di Ursula Von Der Leyen i due paesi sono da tempo impegnati in campagne di disinformazione sul Covid 19 in Europa e a livello mondiale “nel tentativo di minare il dibattito democratico, esacerbare la polarizzazione all’interno delle società e migliorare la propria immagine.”

La gravità dell’allarme lanciato da Bruxelles, impensierita dal peggioramento dell’impatto sanitario e sociale  e dalla salute della democrazia occidentale, giustificherebbe dunque l’invenzione di un neologismo che riecheggia terribile, forte di quella parola che bene conosciamo a cui si appoggia.

Non è esagerato, non si tratta di una similitudine forzata. La pandemia, sgorgando da una fonte biologica, ha investito anche il mare dell’informazione, aggravando lo status di acque già abbondantemente intorpidite.

Nel secondo mese dell’emergenza pandemica in Italia, l’attenzione attribuita alle fonti di disinformazione al coronavirus è aumentata, salendo fino al 37% nella settimana dal 13 al 19 aprile.

Un trend in calo si è individuato anche per l’offerta di informazione verificata, mentre per l’incidenza della disinformazione sul totale delle notizie online relative al coronavirus si è registrato un significativo aumento, quasi del 6%.

L’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni sottolinea come analizzando il contenuto testuale di tutti gli articoli di disinformazione sul coronavirus emergano, sopra le altre, quelle che sono le narrazioni più frequenti. Queste riguardano principalmente i rischi di contagio diversi da quelli accertati, teorie complottiste e una cronaca eretta sull’utilizzo ricorrente di termini atti a far leva su un sentiment collettivo negativo.

In particolare, quanto alla disinformazione che Russia e Cina sarebbero colpevoli di produrre e strumentalizzare, la Commissione Europea ha individuato esempi più specifici. Ben cinquecento fra questi sarebbero stati prodotti dalla Russia con chiari intenti pro Cremlino e consisterebbero in campagne di informazioni sanitarie fasulle, medicine dannose alla salute, cure miracolose o indicazioni fuorvianti, come quella secondo la quale lavarsi le mani non servirebbe a nulla contro il virus o che il Covid ucciderebbe solo gli anziani.

Ad esacerbare ulteriormente il problema, aizzando la violenza pubblica, non mancano le teorie cospirative convinte che le antenne 5G o determinati alcuni gruppi etnici o religiosi siano colpevoli di aver diffuso il virus e, soprattutto, il dibattito social quotidianamente alimentato da bizzarre opinioni e complottismi di fattura anche occidentale.  

Durante l’epidemia, infatti, in Europa si è riscontrata un’impennata dei consumi dei servizi di comunicazione online. Nelle settimane dell’emergenza, l’Italia è in particolare il Paese che mostra i tassi di crescita più elevati, sia per la fruizione di informazione online, sia per l’utilizzo di social network e siti e app di messaggistica dove, spesso, l’infodemia prolifica copiosamente.

A livello globale, inoltre, nei primi mesi del 2020 si rileva anche un cospicuo incremento di minacce e attacchi informatici, molti dei quali fondati sullo sfruttamento del veicolo socio-psicologico della pandemia in atto. Dall’inizio dell’anno sono stati registrati 16.000 nuovi domini internet legati al Covid-19, di cui circa il 20% con finalità malevole.

A tal proposito non sono mancati i provvedimenti da parte degli stessi social network.

Prima fra tutti Twitter, il social network informativo per eccellenza che moltissime figure istituzionali utilizzano per comunicare, ha avviato un’ offensiva contro la propaganda e la disinformazione che intorpidiscono la acque della piattaforma.

Il social fondato da Jack Dorsey ha rimosso ben 32 mila account fasulli usati non solo da paesi occidentali ma anche da quelle stesso Cina, Russia e Turchia ree di mettere in circolo contenuti dannosi.

La rete più grande, tra le tre smantellate, è quella cinese. Era composta da un nucleo di 23.750 account, i cui contenuti venivano amplificati sul social da altri 150 mila account. Si trattava di una catena usata per attività «coordinate e manipolatorie», volte a »«diffondere narrazioni geopolitiche favorevoli al Partito comunista cinese, e racconti ingannevoli sulle dinamiche politiche di Hong Kong e delle manifestazioni pro-democrazia in corso», spiega Twitter.

La rete promuoveva anche messaggi sulla pandemia, sul miliardario cinese in esilio Guo Wengui e su Taiwan. Secondo il social il network cinese era collegato a una precedente operazione sostenuta dallo stato smantellata l’anno scorso da Twitter, Facebook e YouTube di Google. In Cina Twitter è bloccato, insieme ad altri social media americani come Facebook e Instagram.

La rete russa invece si articolava in un migliaio di account legati a Current Policy, un sito d’informazione che si occupava di fare propaganda a favore del governo. Tra le attività della rete c’era soprattutto la promozione di Russia Unita, il partito del presidente russo Vladimir Putin e l’attacco ai dissidenti politici.

La rete turca, infine, contava 7.340 account, impegnati ad intrecciare una narrazione favorevole del presidente Erdogan e del partito Akp, sospendendo oltre 7 mila account accusati di svolgere attività “coordinate e manipolatorie” di propaganda.

La Turchia ha commentato l’offensiva di Twitter definendola “faziosa” e “politicamente motivata”. In una nota, il capo della comunicazione della presidenza di Ankara, Fahrettin Altun, accusa a sua volta il social media di agire come “una macchina di propaganda con certe inclinazioni politiche e ideologiche” e lo giudica colpevole di un’opera di “diffamazione” mossa da “nera propaganda di entità anti-turche, compresi il Pkk e Feto”, ossia la presunta rete golpista di Fethullah Gulen.

Nel testo, con ragione, Altun sottolinea anche la “recente controversia che ha riguardato Twitter negli Stati Uniti” per lo scontro con il presidente Donald Trump reo, più volte, di aver utilizzato Twitter in modo altrettanto appropriato, facendone un veicolo di una propaganda. Il social anche nel suo caso ha marcato più di una volta i post del presidente degli Stati Uniti oscurandoli parzialmente perché vicini ad incitare alla violenza.

Quanto può essere inutile continuare a chiedersi chi possa aver inquinato il mare dell’informazione se l’alternativa è, piuttosto, quella più logica di imboccarsi le maniche e istituire un meccanismo che garantisca finalmente una pulizia perpetua non solo delle notizie che leggiamo online ma anche del nostro sguardo?

Non serve tuffarsi troppo a fondo per accorgersi che il giornalismo online manca di un legiferazione completa e, in alcuni casi, anche di quella continenza, verità oggettiva e interesse sociale che si fanno sempre più sbiaditi anche sulla carta col passare del tempo.

Se a ciò uniamo l’usanza da parte di molti lettori di tuffarsi nel grande mare senza riuscire a discernere, dopo più occhiate, una medusa da una busta di plastica, comprendiamo bene come il terreno fertile che ha permesso alla disinformazione di attecchire siamo proprio noi.

Forse è arrivato il momento di trascendere i colori politici e l’antagonismo rinunciando a cercare il diavolo negli occhi degli altri.