COVID-19: finché dura la tregua

di Guglielmo RezzaOTHERNEWS

Si è deciso di affrontare l’epidemia come se si trattasse di una guerra, ma bisogna ricordare che quella vinta era una battaglia sul fronte italiano e non l’intero conflitto.

Foto di Tomaso Salviati ©

Ogni lotta viene condotta con la prospettiva della vittoria: tanto più la vittoria è a portata di mano, tanto più sarà facile convincere le persone a lottare in vista di quell’obbiettivo. Al contrario, se la lotta sembra portare con sé sofferenze destinate a prolungarsi nel tempo, aumentano le diserzioni, si levano più voci scettiche e contrarie e ci si domanda se la vittoria valga realmente i sacrifici che essa comporta.

L’esempio più classico è quello delle due guerre mondiali: nell’autunno del 1914 furono tantissimi i volontari pronti a imbarcarsi in un’avventura che, a detta di molti, si sarebbe conclusa per Natale, mentre nel 1939, quando il ricordo della prima guerra mondiale era ancora vivido negli animi di chi l’aveva vissuta, erano molto più numerose le voci contrarie a quello che sarebbe potuto diventare un altro conflitto altrettanto sanguinoso.

La retorica bellicista, in Italia, nel corso di questa epidemia, è stata ricorrente, con l’utilizzo di una narrativa fatta di patria e di eroi che ha spesso ricordato la propaganda di guerra: bandiere esposte, incitamenti a lottare e resistere, promesse che, tramite uno sforzo collettivo, sarebbe stato possibile sconfiggere il microscopico nemico e persino la celebrazione velleitaria dei veterani impegnati al fronte, medici e infermieri, già dimenticati il giorno dopo la fine della guerra, come accade per tutti i veterani. Effettivamente, lo sforzo è valso qualcosa, giacché terapie intensive si sono svuotate, i contagi sono drasticamente calati, mentre il conteggio dei morti, in alcune fasi, è sembrato quasi azzerarsi. Dunque, largo alle celebrazioni.

Tuttavia, bisogna capire che cosa si stia festeggiando. Non è la guerra ad essere stata vinta, ma una battaglia sul fronte italiano in quello che è un conflitto globale. Tale consapevolezza è, tuttavia, difficile da accettare: è molto più semplice pensare che sia tutto finito, che il nemico sia sconfitto e che ci si può preparare a festeggiare e tornare alla normalità. Tuttavia, il nemico in Italia è solo indebolito, -non parliamo della carica virale, per carità, ma della diffusione- mentre in altri Paesi la situazione è decisamente più critica.

Gli Stati Uniti, come al solito intenzionati a primeggiare, rimangono saldamente in cima alla classifica, con quasi 2 milioni e mezzo di casi confermati e un picco di quasi 40.000 casi nella giornata del 25 giugno. Segue il Brasile, con 1.200.000 casi confermati e a una certa distanza la Russia, con 620.000 casi. In tutto ciò l’India raggiunge quota 17.000 contagi nella giornata del 26 giugno, con ben 450.000 casi certificati, guadagnandosi un dignitoso quarto posto, ma con le giuste potenzialità per scalare la classifica.

Mentre alcuni Paesi stanno ancora cercando di gestire il primo breakout, altri si trovano già a doversi confrontare con la impropriamente detta “seconda ondata”: di fatto, in molti casi, si tratta semplicemente di un rinfocolarsi della prima ondata, arginata con misure di contenimento ma mai realmente esauritasi. Così il virus scoppia nuovamente in Iran, sebbene siano poche le notizie affidabili sulla sua reale diffusione e sul numero di vittime, Pechino torna chiudere alcuni quartieri, e la Sud Corea segnala un certo aumento di casi da tenere sotto controllo.

In tutto ciò giungono segnali preoccupanti anche dall’Europa, dove l’ormai discusso OMS ha segnalato, per la prima volta da mesi, un aumento dei casi settimanali. Tra questi vale la pena ricordare il caso in Germania del mattatoio Tönnies e del conseguente lockdown per 560.000 persone e la reintroduzione di misure di contenimento in Portogallo, tra cui la chiusura anticipata dei negozi e il divieto di consumare drink per strada. Del resto, per quanto non ci piaccia ammetterlo, c’è un aumento dei focolai anche in Italia, sebbene sembri che fino ad ora sia stato più o meno possibile circoscriverli.

Ci siamo raccontati di aver vinto sul virus e di aver diritto a tornare alla normalità: sconfitto il virus, bisogna pensare alla ripresa economica. I proprietari di attività economiche chiedono maggiori libertà e si cerca di incentivare l’arrivo di turisti per la stagione estiva: del resto, bisogna approfittare della tregua per cercare di rimettersi in piedi. Tutti cercano di rimpossessarsi della propria normalità, spingendo via, in un angolo remoto della propria mente, l’incubo dell’epidemia, che intanto prosegue al di fuori dei nostri confini.

Non è dato sapere se si riuscirà ad arginare il virus sino a quando verrà trovato il vaccino, o se sarà necessario, nel frattempo, tornare ad adottare misure di contenimento. Non è neanche dato sapere se gli italiani sarebbero effettivamente disposti a nuove rinunce e limitazioni nel nome della lotta al virus, o se essi abbiano già dato fondo a tutte le proprie risorse psicologiche e soprattutto economiche. Certo, una cosiddetta seconda ondata verrebbe gestita diversamente rispetto alla cosiddetta prima, poiché adesso si sa contro cosa si sta lottando e quali potrebbero essere alcuni suoi punti deboli, ma le implicazioni del ritorno del virus potrebbero comunque essere molto preoccupanti.

Tuttavia, si è deciso di approcciare questa epidemia come se si trattasse di una guerra e in guerra vale sempre un preciso imperativo: concentrarsi sul presente e non preoccuparsi di quanto potrà accadere domani, poiché si tratta di qualcosa al di fuori del proprio controllo.

PS: al contrario, mascherine che coprano naso e bocca, -naso e bocca, sorprendentemente potete comunicare anche senza abbassarle- distanziamento sociale e pulizia delle mani sono pienamente nel vostro controllo, quindi di grazia rispettate queste norme, così magari questa tregua può durare un po’ più a lungo, intesi? E sì, la conclusione passivo-aggressiva a questo articolo era assolutamente necessaria.