di Gianfranco Maselli – OTHERNEWS
Il tempo che ci separa dalla fine del mondo sul “Doomsday Clock” si è ridotto drasticamente e la pandemia c’entra ben poco. Dobbiamo continuare a percorrere la strada verso il disarmo nucleare globale senza voltarci indietro.

Rifuggiamo paragoni estremi e poco pertinenti, facciamo sempre chiarezza tanto nel chiacchiericcio quotidiano quanto nell’informazione ma non imbavagliavamo il nostro immaginario quando questo viene toccato da un evento attuale che sembra fare rima con un passato terribile. Ignorare, ad esempio, la drammatica epifania che ha inondato il nostro sguardo davanti all’esplosione di Beirut, pochi giorni fa, sarebbe un’ impresa sciocca e poco rispettosa nei confronti di noi stessi.
La luce accecante e quell’enorme fungo mortale hanno aperto uno squarcio nel nostro immaginario, attingendo ai suoi cassetti più profondi, spazi colmi di ricordi e immagini che, adagiati sul suo fondo e sigillati da anni, col tempo credevamo avremmo dimenticato.
Le tragiche immagini di Beirut ci hanno ricordato che quei cassetti sono ancora tutti lì e le dichiarazioni del governatore del paese e di Don Renato Sacco, prete della diocesi di Novara e coordinatore nazionale di Pax Christi, sembrano confermare una sensazione che è ben lungi da accomunare soltanto pochi individui.
Come dichiarato da più voci, le immagini che nei giorni scorrevano sotto i nostri occhi si sono susseguite in un tono drammaticamente evocativo, riproponendo uno scenario spaventoso: un’ esplosione nucleare futura che avrebbe una dimensione infinitamente più grande rispetto a quella di Hiroshima e Nagasaki, i disastri cui quel fungo nel cielo libanese sembrava tanto assomigliare.
Come già puntualizzato qualche paragrafo fa, i paragoni azzardati non mi sono mai piaciuti. Quanto è successo a Beirut non ha nulla che fare con i disastri atomici del secolo scorso ma è impossibile, guardando verso un’esplosione di quella portata, non rabbrividire e non volgere il nostro pensiero all’urgenza di una svolta nel dibattito sul disarmo nucleare, soprattutto quando questa urgenza si sente sia in casa nostra che in tutto il mondo, influendo anche sul tempo che ci separa dalla “Mezzanotte Globale”.
Ma andiamo con ordine.
La preoccupazione principale che si erge dall’ Italia sorge in virtù del fatto che il nostro paese non ha ancora aderito al Trattato sul bando totale delle armi nucleari, approvato all’ONU il 7 luglio 2017.
Come continua Don Renato Sacco, il giorno dopo la catastrofica esplosione in Libano e alla vigilia del 75° anniversario delle bombe di Hiroshima e Nagasaki, l’appello della Conferenza episcopale italiana che esorta il governo a firmare il trattato è una richiesta tutt’altro che poco pertinente con quanto è accaduto in Libano.
“È grave”, sottolinea Don Sacco, “che nelle basi militari in Europa siano presenti decine di ordigni nucleari. L’adesione al Trattato da parte del governo italiano è un passo indispensabile per la pace e per guardare al futuro con speranza.
Evitare di assumere una posizione significherebbe vanificare un percorso cominciato dagli anni ’50 del secolo scorso, significherebbe cancellare le impronte dei manifestati giapponesi del “Consiglio Contro atomica e bombe all’idrogeno”, del WSP delle donne per la Pace e di personaggi come il premio Nobel per la Pace Linus Pauling, tutti protagonisti di battaglie condotte in avanscoperta, ben prima che il dibattito sensibilizzasse le istituzioni e si traducesse in trattati e accordi internazionali.
L’ultimo di questi, il trattato sul bando totale delle armi nucleari che l’Italia fatica a firmare, è il primo legalmente vincolante per la completa proibizione delle armi nucleari: le rende illegali e batte una strada per noi inedita, un percorso che si propone di condurre il mondo verso la loro completa, e per ora utopica, eliminazione.
È stato adottato da una conferenza delle Nazioni Unite il 7 luglio 2017 che ha visto partecipare ben 129 paesi accreditati, assieme a 7 organizzazioni internazionali tra le quali l’Unione europea e la Croce Rossa Internazionale e le organizzazioni non governative, tra cui la “International Campaign to Abolish Nuclear Weapons”. Dei 195 Stati potenziali partecipanti ben 66 paesi non si sono uniti formalmente ai negoziati. Tra questi si distinguono, ovviamente, tutti gli stati con armi nucleari come Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, Israele, India, Pakistan e Corea del Nord, paesi che preferiscono continuare a conservare uno status quo globale nel segno di quella supremazia, di quel terrorismo silenzioso basato sul possesso di un ordigno mortale capace di mantenere un equilibrio di terrore, quello stesso che ha alimentato per quasi 45 anni la Guerra Fredda.
I negoziati per il disarmo nucleare hanno vissuto diverse fasi ed i contrasti maggiori sono sempre sorti attorno al controllo delle armi atomiche. Certamente il trattato del 2017 è l’ennesimo step di quel percorso, cominciato alle porte degli anni ’50, che tutt’oggi continua a guidarci verso la comprensione della disumana potenza bellica del nucleare. Kilometro dopo kilometro abbiamo imparato a capire quanto sia urgente sovvertire uno schema globale che basa la sua conservazione e il suo equilibrio sulla paura dell’altro e, conseguentemente, sull’armarsi fino ai denti per non essere da meno del proprio vicino.
Tra il 1945 ed il 1955, subito dopo la Seconda guerra mondiale, l’URSS si rifiutò di prendere in considerazione qualsiasi proposta relativa al disarmo nucleare. Il caso più clamoroso fu la risposta con cui nel 1948 l’allora delegato sovietico all’ONU, Andrej Vyšinskij, respinse la proposta degli USA, che in quegli anni avevano il monopolio della bomba atomica, di trasferire la proprietà ed il controllo sull’energia atomica all’Onu. A questo modo Vyšinskij ebbe a dire: “ho ascoltato le proposte americane e ne ho riso tutta la notte!”
Il triennio 1955-1957 è stato contrassegnato da una parte dallo sforzo occidentale nell’arrivare a risultati concreti e dall’altro da apparenti sintomi di flessibilità sovietica, poi smentiti dai fatti. Ogni intenzione che, esteriormente sembrava protesa verso un’idea di pace, nascondeva in realtà una semplicissima mania di controllo atta a disarmare non il mondo intero ma l’avversario, il nemico, il diverso.
A Ginevra, nel 1955, si giunse all’accordo di applicare contemporaneamente due piani di controlli: quello aereo proposto da Dwight David Eisenhower e quello costituito da posti di controllo terrestre proposti da Mosca. Anche questo accordo venne reso impraticabile da Molotov nell’ottobre del 1955. I negoziati si trascinarono a Londra fino al 1957: il 27 agosto il delegato sovietico Valerian Zorin respinse ogni proposta ed abbandonò i negoziati.
Durante gli anni ‘60 crebbe sempre di più una nuova sensibilità popolare contro le armi nucleari, per la prima volta sospinta non dalla ragione economica ma da un desiderio di pace. Nel 1963 venne firmato il Partial Test Ban Treaty, che proibiva test nucleari in atmosfera. Nel 1968 venne firmato il Trattato di non proliferazione nucleare. Nel 1972 venne siglato il Trattato anti missili balistici AMB e, con la fine degli anni ’80, si inaugurò la stagione degli accordi START, siglati lungo tutto l’ultimo ventennio del 20° secolo, suddivisi in due trattati.
Il primo, ratificato nel 1994, è riuscito a limitare le forze nucleari a lungo raggio negli Stati Uniti e nei nuovi Stati indipendenti emersi dopo il crollo dell’Unione Sovietica a 6.000 testate, distribuite su un massimo di 1600 tra missili balistici intercontinentali (ICBM) e bombardieri strategici.
Il secondo trattato, denominato START II, è stato un accordo bilaterale tra gli Stati Uniti e la Russia, siglato il 3 gennaio 1993 tra il presidente statunitense Bush e quello russo Eltsin. Con esso è stato bandito l’uso dei MIRV, i sistemi di trasporto e lancio multiplo di testate. Ratificato prima nel gennaio 1996 dal senato degli Stati Uniti, il trattato è rimasto tuttavia in sospeso per alcuni anni alla duma russa.
La ratifica fu posposta varie volte in segno di protesta contro gli interventi militari statunitensi in Iraq e in Kosovo, nonché contro l’espansione nell’Europa orientale della NATO. Col passare del tempo entrambe le parti persero interesse per il trattato. Gli Stati Uniti iniziarono a premere per una modifica del trattato ABM del 1972, in modo da poter sviluppare una tecnologia anti-missile che consisteva in un vero e proprio scudo spaziale.
La strategia ovviamente incontrò il rifiuto da parte della Russia che nell’Aprile del 2000 ratificò il trattato START II, vincolandolo all’intoccabilità del trattato ABM.
Come al solito ad emergere e a smuovere le parti continuava ad essere l’eterna partita a scacchi che nessuno dei due paesi voleva smettere di giocare. La supremazia non si immedesimava certo nella vittoria ma nel mantenimento di un equilibrio diabolico e competitivo fra le due parti, che gareggiavano in una competizione che continuava a sembrare imperitura anche 11 anni dopo la caduta del Muro di Berlino.
START II è stato poi ufficialmente superato dal trattato successivo, il SORT, siglato dai presidenti George W. Bush e Vladimir Putin il 24 maggio 2002 e spesso criticato dai sostenitori controllo degli armamenti. Questo non ci sorprende se consideriamo che con il SORT le parti abbandonarono la logica dei trattati precedenti per dedicarsi a più accurate limitazioni della quantità di armi, accettando di ridurre il numero delle loro testate ad una cifra compresa tra 1.700 e 2.200 entro il 2012.
Il SORT è stato sostituito dal nuovo trattato START nel 2010, a cui poi è subentrato il recentissimo Trattato di divieto sulle armi nucleari, siglato nel 2017 ma non ancora in vigore. Se si riuscisse convincere gli scettici, i maniaci del controllo, gli affezionati alla supremazia e quegli accaniti ludopatici rimasti a giocare la stessa vecchia partita a scacchi si riuscirebbe a vietare il possesso, la produzione, lo sviluppo e la sperimentazione di armi nucleari.
La strada che porta alla sensibilità globale e all’abbandono della logica della ragion di stato per scegliere il buon senso è ancora molto lunga. Parallelamente il tempo rimasto per prendere una decisione unanime non sembra essere ancora molto: l’umanità è sempre più vicina alla sua “mezzanotte” del “Doomsday Clock”.
Per coloro che ne sentono parlare per la prima volta il Doomsday Clock è iniziativa ideata nel 1947 dagli scienziati della rivista Bulletin of the Atomic Scientists dell’Università di Chicago. Consiste in un orologio metaforico che misura il pericolo di una ipotetica fine del mondo a cui l’umanità sarebbe sottoposta.
Il pericolo sull’orologio viene quantificato tramite l’evocativa metafora della mezzanotte che simboleggia la fine del mondo. I minuti precedenti invece rappresentano la distanza ipotetica che ci divide dalla fine. Se originariamente la mezzanotte rappresentava unicamente proprio la guerra atomica, dal 2007 l’orologio ha iniziato a considerare qualsiasi altro evento reo di infliggere danni irrevocabili all’umanità, inglobando anche l’inquinamento e i cambiamenti climatici.
Al momento della sua creazione, durante la Guerra Fredda, l’orologio fu impostato a sette minuti dalla mezzanotte e da quel momento le lancette sono state spostate ben 22 volte nell’arco di più di 70 anni.
La massima lontananza dalla “Mezzanotte Globale” è stata di 17 minuti ed è stata registrata tra il 1991 il 1995, un momento storico in cui proprio i Trattati START hanno inaugurato una stagione di cambiamento, di riduzione degli armamenti e, conseguentemente, di abbassamento della probabilità del rischio.
È la massima vicinanza alla mezzanotte il tasto più dolente da affrontare. Il precedente record di due minuti, registrato sia nella seconda metà degli anni ‘50 sia nel 2018, è stato completamente infranto quest’anno, nel 2020, dove in pochi mesi è stata raggiunta la vicinanza più terrificante di sempre.
Ad oggi appena 100 secondi ci separano alla Mezzanotte. I motivi sono diversi e non è certo colpa del coronavirus come si potrebbe facilmente pensare. Tra le principali motivazioni, espresse nello Science and Security Board Bulletin of the Atomic Scientists del 2020, compaiono, come anticipato, la questione del riarmo nucleare e i cambiamenti climatici.
I leader nazionali hanno posto fine o minato diversi importanti trattati e negoziati sul controllo degli armamenti nel corso dell’ultimo anno, creando un ambiente favorevole a una rinnovata corsa agli armamenti nucleari, alla proliferazione delle armi atomiche e alla riduzione degli ostacoli alla guerra nucleare. I conflitti politici inerenti i programmi nucleari in Iran e in Corea del Nord sono rimasti irrisolti e, sotto alcuni punti di vista, sono peggiorati, mentre la cooperazione USA-Russia sul controllo degli armamenti e sul disarmo, la chiave per garantirci un disarmo sostanziale, è oramai quasi inesistente.
Ancora una volta la parola chiave deve essere la cooperazione, nel segno di una ritrovata sensibilità che rifugga il gusto per le dimostrazioni di forza costanti. Quello contro cui dobbiamo combattere non è la prevaricazione contro l’altro in sé ma è un gioco ancora più sadico che consiste nell’accumulare in modo competitivo sempre più polvere da sparare. Non c’è partita a scacchi più diabolica di quella che, boriosamente, si alimenta della consapevolezza di poter schiacciare il proprio nemico in qualsiasi momento e della tracotanza del sapere di quanto, di ciò, il nemico ne sia terribilmente consapevole.
All’avversario impaurito non resta che correre ai ripari e trasformarsi da vittima a carnefice, armandosi allo stesso modo, come il suo nemico gli ha insegnato, alimentando un loop di tensione tutt’altro che imperituro: i passi falsi ci attendono ad ogni angolo e portare la tensione ad esplodere significherebbe perdere una partita a scacchi poco intelligente, abbandonando l’umanità alla sua mezzanotte più buia.