Afghanizzando la guerra in Afghanistan

di Guglielmo Rezza – OTHERNEWS

Con l’approssimarsi delle elezioni, Trump sembra intenzionato a uscire dal pantano afghano, delegando la difesa dell’Afghanistan alle forze di sicurezza di Kabul

Le guerre sono da sempre un tema caldo nelle elezioni americane, specialmente se i conflitti in questione si svolgono in terre lontane, durano ormai da troppi anni e non possono essere vinti. Erano altri tempi e le guerre avevano colonne sonore migliori, quando Nixon vinse le elezioni con la promessa di riportare i ragazzi a casa dal Vietnam. Mantenne la promessa, anche se con una pace che di onorevole, al contrario di quanto dichiarato, aveva ben poco. La guerra era persa, o quantomeno non vinta e la priorità era quella di uscire da un pantano che ormai portava agli Stati Uniti solamente divisione e instabilità interna: i vietnamiti del sud avrebbero dovuto combattere la propria guerra, in quella che venne definita la “vietnamizzazione” della guerra del Vietnam.

Con gli Accordi di Parigi del 1973 venne raggiunta una parvenza di pace sufficiente a consentire agli Americani di uscire dal conflitto con in mano un pezzo di carta che attestasse il fatto che gli Stati Uniti non erano stati sconfitti. In effetti, fu l’esercito del Vietnam del Sud ad essere ufficialmente sconfitto solamente due anni dopo, quando la conquista di Saigon -che di lì a breve sarebbe stata ribattezzata Ho Chi Minh- da parte dell’Esercito Popolare Vietnamita segnò la fine dei vent’anni più travagliati della storia del Vietnam.

Al di là delle facili analogie, la situazione di allora presenta sostanziali differenze da quella attuale: il conflitto in Afghanistan è combattuto da militari di professione e la guerra è costata agli Stati Uniti molte meno perdite in termini di vite umane, ragion per cui il conflitto è risultato meno divisivo per la società americana. Tuttavia, rimane il fatto che l’esercito americano è impantanato da quasi vent’anni in un conflitto lontano da casa, in una terra ostile di cui ormai non importa più nulla a nessuno e l’attuale Presidente ha garantito al popolo americano che avrebbe riportato le truppe a casa.

Come mantenere la promessa? Con la più classica delle exit strategies: far sedere al tavolo tutti i contendenti, far firmare loro una qualche sospensione delle ostilità e lasciare che i locali gestiscano un’eventuale ripresa del conflitto, dando loro garanzie di assistenza. Possiamo ritrovare tutti questi elementi nell’attuale politica di Trump di Afghanizzazione della guerra in Afghanistan, che il Presidente sta tornando a riproporre con l’avvicinarsi delle elezioni. La versione ufficiale è chiara: la guerra è finita -non è chiarissimo se sia stata vinta o persa- e le truppe americane non combattono più, fanno i poliziotti: gli afghani hanno uomini e mezzi per farcela da soli e l’Afghanistan, ormai, non è più affare degli Stati Uniti.

I rappresentanti degli Stati Uniti e dei Talebani si erano incontrati a Doha dopo più di un anno e mezzo di trattative dagli esiti interlocutori: finalmente, il 29 febbraio 2020, le due parti avevano siglato uno storico accordo che delineava le tappe per il ritiro del contingente americano dall’Afghanistan. L’attuale priorità del governo americano è, quindi, quella di favorire le trattative di pace tra il governo di Kabul e i Talebani, stabilendo i presupposti per una cessazione più o meno duratura delle ostilità, così da poter togliere il disturbo al più presto.

Uno dei requisiti per far tacere le armi è lo scambio dei prigionieri di guerra: stando all’intesa raggiunta a Doha a Febbraio il governo afghano avrebbe dovuto rilasciare 5.000 prigionieri talebani, mentre i talebani avrebbero dovuto liberare 1.000 uomini delle forze di sicurezza afghane da loro tenuti in ostaggio. Il presidente afghano Ashfar Ghani aveva inizialmente tentennato, ma nel corso della scorsa settimana ha acconsentito a rilasciare altri 900 uomini, portando a 3.000 il numero totale dei prigionieri rilasciati da Kabul, a fronte dei 347 rimessi in libertà dai talebani.

Il rilascio dei prigionieri è avvenuto mentre era in corso una tregua di tre giorni faticosamente raggiunta tra le due parti, che sarebbe dovuta scadere alla mezzanotte di giovedì. Pur a fronte di minori, sporadiche violazioni, il cessate il fuoco sembrava tutto sommato tenere, ma nella giornata di giovedì un attentato contro le forze di sicurezza afghane ha fatto registrare 14 morti. Dopo il termine della tregua sono ripresi scontri a macchia d’olio, ma non sono cessate le trattative, con una delegazione talebana che nella stessa giornata di giovedì è giunta a Kabul per discutere le condizioni per il prolungamento del cessate il fuoco.

Le domande sono tante e vanno dalle più immediate, ossia quale sarà l’esito delle trattative adesso in corso, a quelle di medio termine, circa l’effettiva possibilità del ritiro del contingente americano dal Paese, sino a quelle più importanti, di lungo termine: qualora una pace dovesse essere effettivamente raggiunta, così da consentire il ritiro americano, cosa accadrà all’Afghanistan? Quanto durerà la pace? Il governo di Kabul rimarrà in piedi di fronte a una ripresa delle ostilità con i Talebani? Cosa accadrà qualora la situazione dovesse volgere al peggio? Trump ha liquidato la questione con un “possiamo sempre tornare indietro”, ma il futuro dell’Afghanistan sembra, come sempre del resto nella storia recente del Paese, incerto.